Greta Gaza grande

L'episodio della Freedom Flotilla diretta a Gaza, con il suo carico di attivisti e telecamere, trascende la cronaca di una provocazione mediatica. Sebbene il volto di Greta Thunberg abbia offerto una notorietà immediata all'evento, focalizzarsi sulla sua figura sarebbe un errore di prospettiva. La questione centrale, il motore immobile di queste iniziative, è infinitamente più profonda e pericolosa: si tratta della negazione del diritto stesso di Israele a esistere come patria del popolo ebraico.

Queste operazioni, mascherate da missioni umanitarie, sono in realtà la punta dell'iceberg di una vasta campagna politica di delegittimazione. Non contestano una specifica politica di un governo israeliano, sia esso di destra, centro o sinistra. Non mirano a promuovere la coesistenza pacifica o la soluzione a due stati, che presupporrebbe il riconoscimento reciproco. Il loro obiettivo è radicale e assoluto: erodere le fondamenta stesse della legittimità dello Stato di Israele, presentandolo non come una nazione con difetti e sfide, ma come un'entità intrinsecamente illegale, un “errore storico” da correggere.

La retorica che accompagna queste azioni è rivelatrice. Termini come colonialismo d'insediamento, apartheid e genocidio vengono utilizzati non per descrivere situazioni specifiche e complesse, ma come armi semantiche per costruire un'analogia storica falsa e velenosa. L'obiettivo è equiparare Israele ai regimi più abbietti del XX secolo, negando la sua storia millenaria di connessione con quella terra e il contesto della sua fondazione come rifugio per un popolo perseguitato.

Ignorare Hamas in questa equazione è una scelta deliberata e strategica. L'organizzazione terroristica che controlla Gaza, il cui statuto fondativo invoca apertamente la distruzione di Israele e l'uccisione degli ebrei, viene sistematicamente omessa dalla narrazione o, peggio, romanticizzata come resistenza. La solidarietà di questi attivisti non è per il popolo palestinese, ostaggio di un regime teocratico e violento, ma è con Hamas e altre fazioni estremiste nella loro guerra totale contro l'esistenza ebraica in Medio Oriente.

L'approdo mancato a Gaza diventa così un atto performativo di questa ideologia. Non si tratta di portare cibo e medicine, ma di portare un messaggio: noi non riconosciamo la vostra sovranità, la vostra sicurezza, il vostro confine. È un’azione che, nel suo nucleo, sostiene la visione massimalista palestinese che rifiuta ogni compromesso e invoca un diritto al ritorno che, nella sua interpretazione più estesa, significherebbe la fine di Israele come stato a maggioranza ebraica attraverso un'implosione demografica. Non vi è nessuna proposta politica, solo negazione dell’altro.

Questa narrazione, che trova terreno fertile in Occidente, rappresenta la nuova frontiera dell'antisemitismo. È un antisemitismo che si traveste da antisionismo, che sostituisce il vecchio odio religioso o razziale con una moderna ostilità politica. Nega al popolo ebraico quel diritto all'autodeterminazione che viene riconosciuto a tutti gli altri popoli del mondo.

Liquidare la flottiglia come una semplice bravata di idealisti è ingenuo. Si tratta di un tassello consapevole in un mosaico più ampio. È la manifestazione fisica di una campagna ideologica che non cerca giustizia, ma la cancellazione. Una campagna che non vuole la pace per due popoli, ma la scomparsa di uno dei due. La vera marea da temere non è quella che trasporta attivisti in cerca di gloria mediatica e cuoricini, ma quella nera, ideologica e implacabile, che nega al popolo ebraico il suo piccolo, ma legittimo, posto nel mondo.