Cox's Bazar, il campo profughi più grande al mondo. La persecuzione dimenticata dei Rohingya
Diritto e libertà
Quella dei Rohingya, in Birmania/Myanmar, è la vicenda di una delle popolazioni più perseguitate della storia. Si tratta di una minoranza musulmana sunnita originaria del Rakhine, parte della Birmania nord-occidentale, al confine con il Bangladesh.
La Birmania è un paese tristemente noto per povertà, instabilità e autoritarismo. Già colonia del Regno Unito e indipendente dal 1948, ha mostrato sin da subito una profonda fragilità politico-istituzionale. La maggioranza della popolazione birmana è di etnia Bamar e di religione buddista, e molte delle minoranze etniche sono state coinvolte in più conflitti armati contro il potere costituito centrale. Nel 1962 un colpo di Stato ha rovesciato il governo birmano. Durante l'esecutivo della giunta militare, rimasto al potere per quasi mezzo secolo, i Rohingya sono stati duramente discriminati, a causa del forte nazionalismo che li bollava come corpi estranei al Myanmar.
La caduta del governo militare non ha migliorato il quadro: ancora oggi vivono nella condizione di popolo senza Stato. La legge sulla cittadinanza del 1982, infatti, esclude i Rohingya tra i più di 130 gruppi etnici riconosciuti ufficialmente dal Paese, rendendoli tecnicamente immigrati illegali apolidi. Le origini di questo popolo - parliamo di circa due milioni di persone - si perdono tra le pagine della storia. Alcuni studiosi sostengono che vivano in Myanmar da secoli, altri che siano giunti nel Paese dopo le migrazioni degli ultimi cento anni. La loro presenza pare essere accertata almeno dal 1785, anno dell’invasione birmana che uccise migliaia di indigeni, tra cui appunto molti Rohingya.
I Rohingya residenti in Birmania devono richiedere permessi speciali per cercare lavoro, curarsi, sposarsi, e in alcune aree le famiglie non possono avere più di due figli. Molti sono costretti al lavoro forzato, affrontando arresti arbitrari, confische e violenze. Ai giovani Rohingya, inoltre, non è garantito il diritto all’istruzione. Persino i monaci buddisti giocano un ruolo nella segregazione: in diversi li considerano come una minaccia per la purezza religiosa.
Le radici del conflitto interno tra maggioranza buddista e minoranza musulmana sono da riscontrarsi nel periodo immediatamente successivo all'indipendenza, quando scoppiò una violenta guerra civile tra minoranze etniche e governo centrale, con l'esecutivo burmese che cominciò a considerare la popolazione musulmana come gruppo ostile.
Ma è dal 2017 che sono soggetti alla più violenta politica repressiva: dopo un solo mese dall’inizio delle persecuzioni sistematiche, nell'agosto '17, sono morti 6.700 Rohingya. Più di 730.000 civili si sono rifugiati nel vicino Bangladesh, stabilizzandosi nelle aree di raccolta di frontiera. Dalla fuga dal Myanmar, i rifugiati vivono principalmente nei campi profughi di Cox’s Bazar, nel sud-est del Bangladesh, in condizioni disperate. Chi dei Rohingya riuscì ad attraversare il confine scappò anche, in numero molto minore, nelle vicine Malesia, Thailandia, Indonesia.
A tutto ciò va aggiunto che il 1° febbraio 2021 il Myanmar è stato teatro di un nuovo colpo di Stato, che ha generato la presa del potere da parte dell’esercito e l’arresto della storica leader democratica Aung San Suu Kyi, facendo precipitare il Paese in una catastrofe civile caratterizzata da violenze e arresti. Le persone Rohingya che vivono oggi nei campi di Cox's Bazar, tra i più densamente popolati al mondo, sono quasi un milione. La metà, 500mila, sono bambini. Cox's Bazar riunisce più di 30 campi individuali in soli 24 chilometri quadrati. Si tratta di uno dei disastri umanitari più epocali e allo stesso tempo più dimenticati del pianeta, un dramma complicato da raccontare anche per le difficoltà di accesso per i giornalisti (e quindi per le immagini e conseguenti storie che ne derivano).
I giornalisti Rohingya che vivono in queste gabbie umane hanno però creato Rohingyatograher, una rivista che con foto e reportage descrive la vita a Cox's Bazaar e nell'immensa baraccopoli di Kutupalong. Da qui si coglie che chi vive nei campi ha comunque trovato una modalità organizzativa, dotandosi di servizi basici come scuole autonome e presidi sanitari, grazie al sostegno di alcune realtà umanitarie, dal quale dipende la resistenza della comunità. Solo una piccola parte dei bambini riesce ad andare a scuola, mentre i Rohingya non sono autorizzati né a spostarsi né a lavorare. Incendi, anche di natura dolosa, sono molto frequenti.
Il Bangladesh non ha inoltre mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 e per questo la minoranza musulmana del Myanmar non gode nemmeno dello status di rifugiati. Senza documenti legali, né riconoscimento di richiedenti asilo, restano invisibili e privi di garanzie di protezione. Negli anni, sia le istituzioni locali del Bangladesh sia quelle degli Stati limitrofi sono divenute ostili nei confronti dei Rohingya, come dimostrano le operazioni di rimpatri forzosi, rapimenti e repressione delle forme di autorganizzazione sociale.
Nel 2018 le Nazioni Unite hanno definito quanto verificatosi contro i Rohingya una vera e propria pulizia etnica, mentre secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani esiste un rischio concreto di genocidio, come appare dall’evidente intenzione delle forze di sicurezza birmane di distruggere il gruppo etnico. Dopo averla utilizzata per lo Xinjiang, gli Stati Uniti sono tornati ad usare il termine anche per gli omicidi di massa Rohingya. L'annuncio, fatto dal segretario di Stato Blinken nel marzo 2022, arrivò da un luogo altamente simbolico: il Memoriale dell'Olocausto di Washington. "Gli Stati Uniti ritengono che si possa parlare di genocidio in sette occasioni. Oggi è l'ottava. Abbiamo stabilito che i membri dell'esercito birmano hanno commesso genocidio e crimini contro l'umanità".
La decisione fu presa dopo i colloqui degli investigatori americani con circa mille rifugiati Rohingya in Bangladesh. Tre quarti di loro testimoniarono l'uccisione di membri del proprio nucleo familiare negli anni, oltre la metà violenze sessuali, uno su cinque fu testimone di omicidi di massa. Il rapporto ha rilevato che la violenza contro i Rohingya è stata "estrema, su larga scala, diffusa e apparentemente orientata sia a terrorizzare la popolazione che a scacciare i Rohingya residenti". Alle violenze etno-religiose si sono poi aggiunte quelle successive al golpe militare.
Un altro report, pubblicato dallo Schell Center for International Human Rights della Yale Law School, sempre nel 2022, intitolato "Nowhere is Safe", descrive una situazione complessiva di assassinio, tortura, prigionia e sparizione di civili. Secondo un'indagine redatta da Thomas Andrews, relatore speciale Onu per il Myanmar, munizioni e sistemi militari continuano a essere esportati in Birmania, soprattutto da Russia, Cina e Serbia. Humans Right Watch denuncia che l'esercito birmano ha rapito e reclutato con la forza più di 1000 Rohingya in tutto lo Stato di Rakhine dal febbraio di quest'anno, mentre il bilancio del 2023 di almeno 569 Rohingya morti o dispersi mentre cercavano di fuggire dal Myanmar (o dallo stesso Bangladesh, dove la situazione si è fatta sempre più insostenibile) è stato il più alto dal 2014, come dichiarato dall’UNHCR.
Sui crimini commessi dal Tatmadaw, le forze armate birmane, emersero dure testimonianze da parte dei sopravvissuti: uccisioni di massa e stupri di gruppo, interi villaggi rasi al suolo. I rifugiati Rohingya, da anni, affermano che una enorme responsabilità nella diffusione di messaggi d'odio nei confronti della propria popolazione l'abbia avuta Meta. Facebook è il social media dominante in Myanmar: a febbraio 2022, gli utenti di Facebook birmani erano il 37% della popolazione. Secondo l’IIFFMM (Independent International Fact-Finding Mission on Myanmar, organo ONU), la crescita e la formazione di gruppi nazionalisti buddisti ha coinciso con la diffusione di Facebook in Myanmar. Un’inchiesta di Reuters pubblicata nel 2018 ha analizzato più di 1000 post, commenti e immagini che attaccano i Rohingya. Non solo i generali maggiori, ma anche i soldati di grado inferiore utilizzarono Facebook per veicolare messaggi d’odio, mentre il Rakhine era colpito da violenze senza precedenti.
Le ricerche sono state rafforzate da un’inchiesta del New York Times della fine dello stesso anno: secondo il NYT, i militari del Myanmar "sono stati i principali operatori dietro una campagna sistematica su Facebook che si è protratta per mezzo decennio e che ha preso di mira il gruppo minoritario Rohingya, per lo più musulmano, del Paese". Il 1° settembre 2017, il generale maggiore Min Aung Hlaing, attuale Primo ministro della Birmania e comandante delle Forze armate dal 2011, scrisse sulla sua pagina "Dichiariamo apertamente che nel nostro Paese non esiste una razza Rohingya". Nel giugno 2018, Facebook riconobbe pubblicamente, attraverso un’audizione di Zuckerberg al Senato statunitense, di essere stata “troppo lenta” nel reagire alla diffusione della campagna d'odio 2017.
Anche su Twitter, durante il 2017, centinaia di messaggi vennero pubblicati con l’intenzione di far passare i Rohingya come migranti illegali “bengalesi”, non appartenenti al Myanmar. Nel dicembre 2021, un gruppo di rifugiati Rohingya nel Regno Unito e negli USA ha presentato una class action nei confronti di Facebook, accusando la piattaforma di aver consentito la diffusione dei contenuti di incitamento all’odio, chiedendo un risarcimento di più di 150 miliardi di dollari. Aldilà dell'esito, la denuncia verso Facebook può agire da importante volano, nel rendere plasticamente visibile come gli algoritmi di Meta possano avere ripercussioni sulla violazione dei diritti umani dei popoli più a rischio discriminazione e violenza.