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La democrazia, si sa, non può vivere senza un sistema d’informazione che sia realmente completo e plurale, a partire da quella pubblica, che nel nostro paese è da sempre assegnata per legge al controllo delle forze politiche, per via governativa o parlamentare.

La politicizzazione non è mai stata solo una conseguenza indiretta o abusiva dell’assetto proprietario della Rai – ente o azienda statale – ma il principio di tutti i modelli di governance utilizzati, dall’inizio fino ad oggi. La politicizzazione insomma è sempre stata “legge”, principio costitutivo della Rai, non solo “fatto”.

La caratteristica comune a tutti i sistemi di governance sperimentati dal DPR 180/1952 fino alla legge 220/2015 – passando per le leggi 103/1975, 10/1985, 233/1990 (cosiddetta Mammì), 206/1993 e 112/2004 (cosiddetta Gasparri) – è stata l’assegnazione alla maggioranza parlamentare della maggioranza dell’organo di amministrazione e di conseguenza delle direzioni delle reti e testate Rai.

La sola parziale eccezione è stata rappresentata dalla riforma del 1993, con la nomina del Cda affidata congiuntamente ai presidenti delle camere; ma dopo la svolta maggioritaria e la fine della consuetudine di assegnare la presidenza di una camera all’opposizione parlamentare, questo meccanismo non garantirebbe oggi il pluralismo, ma al contrario un monopolio della maggioranza di governo sulle nomine del CdA.

La realtà della Rai va letta dopo il 13 marzo alla luce del nuovo Regolamento europeo ‘Media Freedom Act’, approvato dal PE con 464 voti favorevoli, 92 voti contrari e 65 astensioni e i cui scopi in sintesi sono: proteggere l’indipendenza dei media, vietare qualsiasi forma di ingerenza nelle decisioni editoriali (relativamente ai media pubblici), ed evitare pressioni sui giornalisti (rispetto alla tutela delle loro fonti). Perché il Regolamento diventi operativo manca solo il via libera del Consiglio dell’Ue.

Credo che per il nostro Paese questo atto possa essere cruciale per modificare quel luogo di lottizzazione che continua ad essere la Rai, tuttora imprigionata dentro l’antico schema della legge 103 del 1975, ovvero di quella che doveva essere la ‘grande riforma’ e che confermava il monopolio nazionale della Rai, metteva in cantiere una terza rete decentrata per dare voce alle istanze culturali locali e regionali, istituiva la Commissione parlamentare di Vigilanza Rai e spostava il controllo dal Governo al Parlamento, nell’illusione di un pluralismo che nei fatti diventò ‘lottizzazione’.

Sfogliando le pagine di giornale del tempo, si vede come “L’Unità” (organo del Partito Comunista Italiano) criticò la riforma definendo il suo principio una “logica inaccettabile di lottizzazione”, fino a quando però con la nascita della terza rete nel 1979 si capì che ci sarebbe stato spazio anche per il Partito Comunista e i partiti minori: così gli animi si calmarono.

Rimasero in pochi a lamentarsi dell’assetto della televisione pubblica: rimasero i radicali di Marco Pannella, che già dal 1966 denunciarono, incatenandosi in Via del Babbuino, la mancanza di una corretta informazione sulle posizioni divorziste.

Le denunce nei confronti della carenza d’informazione proseguirono, in particolare rispetto ai referendum: il 30 aprile 1978 Marco Pannella, Emma Bonino, Mauro Mellini e Gianfranco Spadaccia si presentarono imbavagliati in una trasmissione Rai dedicata ai referendum sulla legge reale e il finanziamento pubblico dei partiti, per segnalare l’iniquità degli spazi concessi ai comitati promotori dei referendum rispetto alla maggioranza dei partiti che erano schierati per il ‘No’.

Era la Rai che nel 1983 fece spettacolo dell’arresto di Enzo Tortora, e che i radicali provarono a privatizzare con il referendum abrogativo del 1995, sulla base del principio che un servizio pubblico non deve necessariamente essere erogato da un’impresa statale, dopo che la legge Mammì del 1990 diede di fatto legittimità e cittadinanza alle televisioni private nazionali. Il referendum che abrogava le norme che disponevano l’esclusiva proprietà pubblica della Rai venne approvato con il 55% dei sì, ma alla modifica normativa non conseguì alcun effetto reale.

Nel corso degli anni ‘80 del secolo scorso, Adelaide Aglietta, membra della Commissione parlamentare di Vigilanza della RAI, depositò agli atti le relazioni del “Centro di ascolto dei servizi radiotelevisivi”, finanziato dal Partito Radicale con i soldi del finanziamento pubblico dei partiti, che attestavano l’esclusione dei radicali e di qualunque altra voce scomoda dai palinsesti televisivi, dove dilagavano i partiti di governo e le opposizioni di comodo (quarant’anni dopo non è cambiato nulla!). Mentre, l’anno precedente al Referendum Abrogativo del 1995, il radicale Marco Taradash, appena nominato presidente della Commissione parlamentare di vigilanza, presentò una denuncia alla Procura della Repubblica di Roma contro “l’occupazione militare della RAI da parte dei partiti”.

Arrivò, dopo il 1995, la legge Maccanico che istituì l’AGCOM e recepì le disposizioni dell’Unione Europea per l’avvento del digitale, insieme alla modifica dei tetti pubblicitari, per arrivare poi alla legge Gasparri del 2004, che cambiò i criteri di nomina del CdA dando più potere al Governo: nulla però cambiò nei meccanismi di spartizione della Rai, di fatto ancora oggi preda delle stesse logiche di lottizzazione. Fu il periodo delle contestazioni di associazioni come ‘Articolo 21’, che puntavano il dito contro lo smantellamento del pluralismo minato dall’abbattimento delle norme antitrust. Si parlò al tempo di ‘lottizzazione perfetta’, di un accordo di fatto tacito tra destra e sinistra.

Nel 2015 con il governo Renzi arrivò la legge n.220, denominata “Riforma della Rai e del servizio pubblico radiotelevisivo”, con modifiche normative rispetto alla gestione della Rai: il CDA passò da 9 a 7 membri, quattro nominati da Camera e Senato, uno dal governo ed uno dall’assemblea dei dipendenti. Di fatto, anche questa riforma non ha cambiato la governance avviata con la “grande riforma” del 1975: lottizzazione, spartizione, potere editoriale ed oggi finanziario in mano alla maggioranza di governo.

Il Media Freedom Act Europeo può essere la via per cambiare l’informazione pubblica in Italia: prima andrà fatta un’analisi sui modelli di governance che nel mondo maggiormente rispecchiano il pluralismo e i principi dell’informazione, a tutela della democrazia, mantenendo centrale la richiesta che da anni fanno i radicali: un accesso equo di tutte le forze politiche e sociali e una corretta informazione rispetto alle iniziative di attivazione della democrazia diretta, come referendum e proposte di legge di iniziativa popolare.