Nicola Sturgeon big

Nicola Sturgeon, Primo Ministro della Scozia, nel suo discorso di fine anno ha dichiarato che gli occhi del mondo saranno puntati sul Paese da lei governato citando le varie sfide che verranno nel 2021: la realizzazione del programma di vaccinazionare per uscire dalla pandemia, l’ampliamento delle prestazione assistenziali rivolte alle fasce della popolazione più povere, la lotta ai cambiamenti climatici che vedrà Glasgow ospitare l’annuale Conferenza delle Nazioni Unite sul tema (ribattezzata con l’acronimo Cop26).

Nel messaggio non viene citato direttamente il tema dell’indipendenza, ma ciò non ha impedito a Douglas Ross, leader del Partito Conservatore Scozzese, di considerarlo sufficientemente nazionalista e così accusare l’SNP (Scottish National Party) di cui Sturgeon è leader di essere “ossessionato dall’indipendenza”. 

Questa opinione risulterà chiaramente rafforzata nell’ambiente conservatore dopo che Sturgeon ha condiviso, poco dopo la mezzanotte del 31 dicembre 2020, un tweet indirizzato all’Europa in cui afferma che presto la Scozia tornerà.

Ormai non è un mistero che il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è stato la molla che ha spinto i più autonomisti, e il governo scozzese, a rilanciare il tema di una Scozia indipendente. Secondo molti analisti il sentimento indipendentista è ulteriormente cresciuto durante le fasi della gestione pandemica: mentre la prima ondata non è stata teatro di particolari dissensi tra le quattro nazioni che costituiscono il Regno Unito, tanto che il Coronavirus Act del 25 Marzo 2020 è stato rapidamente approvato, riaperture e nuova ondata sono state affrontate in tutt’altro clima, con accuse da parte di Edimburgo verso il governo Johnson di scarsa prudenza. Questa esternalità sembrerebbe aver contribuito a far aumentare la richiesta di indipendenza dopo che già il Referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea fece emergere una spaccatura: in Scozia il 62% dei cittadini votò a favore del remain.

È importante sottolineare, per meglio comprendere il tema che pongono gli indipendentisti scozzesi, come in qualche modo sia stato proprio un processo di decentramento delle competenze in seno agli Stati membri voluto dalle istituzioni europee a riaccendere le fiamme separatiste. Sbaglia chi vede, nella richiesta della Scozia di un secondo referendum volto ad ottenere l’indipendenza, mire in qualche modo isolazioniste: stiamo piuttosto assistendo a una spinta in origine regionalista sull’onda del processo di implementazione di una governance multilivello nell’Unione Europea. Prova ne è che lo stesso Alex Salmond, ex Primo ministro scozzese e predecessore di Nicola Sturgeon anche come leader dell’SNP, nel suo libro bianco del 2013 intitolato Scotland’s Future: Your Guide to an Indipendent Scotland scritto in previsione del referendum che si tenne il 18 settembre 2014, delinea – tra gli altri punti trattati – una strategia affinché la Scozia continui a far parte dell’Unione Europea. È certo un programma che dopo il recente Brexit Deal ha fatto il suo tempo: dato che ora il Paese non è più membro dell’Ue, appare ancora più evidente che nel caso in cui, una volta ottenuta la separazione dal Regno Unito, volesse farne parte dovrebbe ricorrere all’iter previsto dall’articolo 49 del TUE anziché al 48, ma il riferimento è utile ancora oggi per dare un quadro di coerenza a un progetto nazionalista ed europeista al contempo.

Come accennato, tale programma è spinto anche dal processo di riconoscimento di competenze a livello regionale che si è formato in Europa già nel 1986 attraverso l’Atto Unico Europeo il quale incentivava un maggiore coinvolgimento delle regioni nella gestione dei Fondi Strutturali e che trae origine da una riflessione del Consiglio delle Comunità Europee fatta nel 1972 con risoluzione n.73 in cui fu presa coscienza della necessità di istituire autorità locali indipendenti amministrate da rappresentanti eletti. Ad oggi, grazie al Trattato di Lisbona del dicembre 2009, sono state ampliate le competenze del Comitato Europeo delle Regioni istituito nel 1992 con il Trattato di Maastricht, e si riconosce a quest’ultimo la facoltà di ricorrere alla Corte di Giustizia qualora non ne venga rispettato il ruolo di organo consultivo.

Il percorso di riconoscimento di una maggiore autonomia nei riguardi della Scozia da parte del Regno Unito si è sviluppato in parallelo con l’affermazione di più competenze per le entità regionali in Unione Europea.

Lo spirito nazionalista della Scozia ha un’origine antica che potremmo far risalire alla fine del 1200, quando Re Edoardo I d’Inghilterra decise di assoggettare la Scozia alla corona inglese dando origine ad una serie di eventi che, nel 1328, condurranno a quella che la storia ricorda come la prima guerra di indipendenza scozzese. Tuttavia, in questa sede interessa maggiormente definire cosa è accaduto negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. È soprattutto a seguito della scoperta negli anni ’70 di giacimenti petroliferi nel Mare del Nord che riaffiora una certa agitazione autonomista e con questa una più rilevante richiesta da parte degli scozzesi di un trasferimento delle competenze amministrative, come testimonia l’ottenimento del primo seggio da parte dell’SNP nelle elezioni generali del 1970 – il 1974 si concluderà con l’assegnazione di 7 seggi, invece. Il maggiore peso delle istanze nazionaliste scozzesi spinse il Partito Laburista ad inserire un progetto di devolution nei propri programmi che arriverà a compimento, sotto la guida di Tony Blair, nel 1997 con la ricostituzione di un parlamento scozzese a distanza di tre secoli dal suo smantellamento in favore dell’unione tra i due regni. A tale parlamento sono assegnate materie di carattere esclusivo, non concorrente, tra cui: lo sviluppo economico, la promozione del commercio, il turismo, la formazione, la sanità e i servizi sociali. I rapporti con l’UE rientrano invece nelle materie di competenza esclusiva del Regno Unito, sebbene a Holyrood sia stato riconosciuto il diritto ad essere coinvolto nel dibattimento sulle politiche europee rientranti nelle competenze devolute e ad intrattenere relazioni con i governi regionali.



Come si vede da questa ricostruzione è ormai in parte insito nel progetto europeo un percorso di regionalizzazione, con una devoluzione di poteri e risorse che di certo non si scontra con la spinta ad una maggiore autonomia di alcune regioni, ma ne è anzi talvolta il motore propulsivo. 

Si potrebbe affermare che una maggiore integrazione internazionale aumenti le richieste di autonomia e che queste ultime consentono di colmare quel sentimento ribattezzato “deficit democratico”. In senso simbolico l’accoglimento della Scozia da parte dell’Europa, se mai nel 2021 il Parlamento britannico decidesse di trasferire a quello scozzese i poteri per un nuovo Referendum, potrebbe essere un ribaltamento della narrativa promossa dall’euro-scetticismo.



Una delle obiezioni più frequenti tra i commentatori si focalizza su quella che potremmo definire questione catalana. Qui è evidente come sia necessario individuare un limite alle aspirazioni indipendentiste, ma è giusto anche sottolineare che la controversia tra la Generalitat della Catalunya e il Governo spagnolo non riguarda l’appartenenza all’Unione Europea, ma è piuttosto l’esito di fatti che possono trovare soluzione all’interno della stessa Spagna con l’apertura di nuove trattative a seguito della bocciatura, da parte del Tribunale Costituzionale, del nuovo Statuto di Autonomia della Catalogna approvato dalla regione nel 2006 dopo un referendum a cui partecipò il 49,2% dei cittadini aventi diritto al voto. Un’analisi della validità di queste ultime affermazioni potrà essere fatta già a Febbraio 2021, quando la Catalogna tornerà al voto, e si rimanda ad allora.