top secret grande

L’Italia ha un grosso problema con i segreti. Per chi, come me, si occupa professionalmente di servizi segreti, della loro storia e delle loro relazioni con le istituzioni, questa affermazione non suona certo come una novità. La storia della Prima Repubblica è costellata di momenti in cui il rapporto tra i governi e le strutture incaricate di proteggere la sicurezza nazionale è emerso come un nodo estremamente problematico, che oggi non è ancora stato sciolto. Il piano Solo, il golpe Borghese, la loggia P2, Gladio, sono tutti nomi ed eventi che evocano, anche per i non “addetti ai lavori”, un’immagine di complotti, misteri e deviazioni delle istituzioni che, seppur a volte esagerata nel racconto pubblico, ha comunque una solida base che affonda nel rapporto controverso tra lo Stato italiano e i suoi segreti.

In particolare, il rapporto controverso tra l’Italia e i suoi servizi segreti nasce dalla genesi particolare di queste istituzioni sulla scia della Seconda guerra mondiale, e nella mancanza per molti anni di strutture di controllo adeguate sul loro operato. Basti pensare che un servizio informativo civile fu instituito solo nel 1977 (il SISDE), e rimase comunque largamente subordinato al suo equivalente militare, il SISMI. La legge più recente sull’organizzazione dei servizi segreti risale al 2007 (legge 124/2007), e sembrava finalmente aver adeguato l’Italia alle altre democrazie occidentali, eliminando almeno formalmente la prerogativa dei servizi militari, e trasferendo la responsabilità generale di queste attività alla Presidenza del Consiglio.

Oltre a una relazione trasparente fra governo e servizi segreti, e lo stretto controllo del primo sui secondi, una democrazia che si rispetti deve garantire ai cittadini una certa misura di accesso a qualsiasi documento governativo e istituzionale che non contrasti con le necessità della sicurezza nazionale. In Italia, il primo e unico passo in questa direzione è stato fatto nel 2016, con l’introduzione del Freedom of Information Act (FOIA), una norma esistente già in altri 90 paesi, tra cui gli USA dove fu introdotta nel 1966. Il  italiano comprende una grossa quantità di eccezioni, limiti e ostacoli tali da renderlo di difficile utilizzo, ma la sua introduzione è stata comunque una decisione importante presa dal governo Renzi, che due anni prima aveva già autorizzato la prima massiccia opera di declassificazione di documenti riservati dei servizi segreti, iniziata appunto nel 2014.

Il fatto che il primo accesso pubblico a documentazione che attesti l’operato dei nostri servizi segreti sia avvenuto dopo ben 66 anni di storia repubblicana non è un dettaglio trascurabile. Come dicevo in apertura, l’Italia ha un problema con i segreti, o per meglio dire con la cultura della sicurezza, e gli avvenimenti recenti dimostrano che questo problema ha ancora un impatto notevole sulla vita del paese. L’attuale Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, infatti, è stato di recente convocato dal Copasir, il comitato parlamentare che vigila sull’attività dei servizi segreti, per riferire in merito alla “norma fantasma” sul rinnovo dei vertici dei servizi, inserita silenziosamente all’interno del decreto Covid dello scorso 30 luglio, senza discuterne in Parlamento.

La norma in sé parrebbe in apparenza una modifica solo formale: il rinnovo dell’incarico dei vertici dei servizi, attribuito tramite delega del Presidente del Consiglio, possibile solo una volta per una durata massima di quattro anni, sarebbe ora divisibile in più “tronconi”. Non necessariamente un solo rinnovo da quattro anni, quindi, ma più rinnovi di durata più breve. Questa è comunque la posizione sostenuta dal governo, o meglio da Conte, dato che 50 deputati del suo partito hanno proposto un emendamento al decreto per eliminare la norma in questione, sconfitto con il voto di fiducia apposto al decreto stesso.

I contenuti della norma fanno discutere. Carlo Bonini, in un articolo su Repubblica del 4 agosto, ha suggerito che dietro di essa potrebbe nascondersi la volontà di Conte di confermare l’incarico agli attuali dirigenti dei servizi: una legge ad personam, insomma. Al di là di questo, che resterà oggetto di dibattito, quello che è certo è che la modalità con la quale la norma è stata introdotta va oggettivamente criticata, in quanto richiama i problemi di vecchia data del paese con la cultura della sicurezza. Inserire una norma che riguarda le cariche più importanti di un settore così delicato come la sicurezza nazionale in un decreto che si riferisce a tutt’altro, senza discuterne in Parlamento e senza coinvolgere l’opposizione né il Copasir, crea l’effetto esattamente opposto rispetto alla ormai famosa affermazione del Presidente per cui “questo governo non lavora con il favore delle tenebre”.

L’episodio non è nemmeno il solo a far emergere oggi il tema della segretezza come cruciale per garantire il rapporto di fiducia fra Stato e cittadini. I verbali del Comitato Tecnico Scientifico emersi nelle ultime settimane dimostrano senza ombra di dubbio come il governo attuale abbia deciso di mantenere segrete delle informazioni che, fino a prova contraria, hanno indirizzato il suo operato – e di conseguenza la vita dello Stato – negli ultimi mesi. Per quale motivo? Il CTS non è un organo governativo ma una struttura consultiva di supporto al capo del Dipartimento della Protezione Civile, quindi in teoria i suoi pareri non dovrebbero mettere a rischio la sicurezza nazionale. Considerando che i documenti sono stati finalmente rilasciati, ma pieni di censure e omissis, è chiaro che il governo abbia qualcosa da nascondere, o quantomeno tema il giudizio dei cittadini sul proprio operato. Non a caso, ad emergere immediatamente dai verbali sono le grosse responsabilità governative nell’aver ignorato gli avvertimenti relativi alle prime zone rosse, che se ascoltati avrebbero potuto contenere il contagio e, soprattutto, la conta delle vittime.

La cultura della sicurezza, il controllo sui servizi segreti, il libero accesso all’informazione garantito dal Freedom of Information Act, possono sembrare argomenti accademici e poco rilevanti per la quotidianità. In realtà questi sono strumenti essenziali per qualsiasi democrazia che si rispetti. L’Italia è estremamente indietro in questo campo, e gli eventi degli ultimi sei mesi hanno dimostrato che, se non verranno sciolti, questi nodi possono mettere seriamente a rischio i principi fondamentali dello Stato, minando l’operato delle istituzioni e, cosa più importante, la fiducia dei cittadini nelle stesse.