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Il vero decadimento morale delle società occidentali, che riemerge in periodi di crisi come questa epidemia o come col terrorismo organizzato qualche anno fa, è secondo me la rimozione della tragedia in cui viviamo. Ci siamo dimenticati che le disgrazie accadono, che accadono proprio naturalmente, e per questo siamo portati a esigere colpevoli, faticando ad accettare che un terrorista possa eludere i fallaci controlli della polizia, che sia pressoché impossibile evitare la diffusione di un virus come quello che stiamo affrontando. E ci siamo dimenticati i costi che comporterebbe la massimizzazione dello sforzo del potere istituzionale nell’arrestare questi effetti collaterali della libertà: cosa vorrebbe dire cioè vivere in uno stato di polizia, o nel caso di questi giorni bloccare per un periodo indefinito enormi parti del mondo, centinaia di milioni di persone. Maggiore disagio di quelle comunità, crisi economica, perdita di posti di lavoro, minori risorse da investire per moltissimi Paesi quindi anche nel welfare: anche questi sono costi, non solo le vite umane mietute dal nuovo virus. Anche per questo i rimedi umani sono spesso prudenti, imperfetti, tardivi, oltre che per gli inevitabili errori.

Il frutto inevitabile del benessere di stampo occidentale ha portato a un ribaltamento del paradigma. Dovremmo riconoscere di nuovo che le combinazioni disordinate, nemiche della vita, sono molto più comuni delle oasi di ordine che ritagliamo dall’entropia, che le nostre costruzioni benefiche sono precarie e fragili, perché per legge fisica è molto più complesso costruire che distruggere. Come intuì Adam Smith, è la ricchezza a richiedere una spiegazione, non la povertà; è la nostra straordinaria aspettativa di vita ad essere innaturale, non la mortalità infantile; è il secolo di relativa pace che stiamo costruendo a fare da eccezione nella storia umana, non i conflitti. Ed è normale non avere a disposizione un vaccino, che pure probabilmente arriverà fra qualche mese.

Recuperando il senso della tragedia forse riconosceremmo che le prove che siamo chiamati ad affrontare sono comunque imparagonabilmente più lievi della sofferenza che ha afflitto i nostri simili per millenni; forse smetteremmo di pretendere dalle nostre istituzioni capacità taumaturgiche (il che ovviamente non significa cancellare le responsabilità individuali ma il contrario); forse ci decideremmo a onorare con attenzioni e strumenti quel metodo e quelle conoscenze cui dobbiamo tutto e magari ci verrebbe più semplice manifestare gratitudine per il miracoloso sistema frutto della rete di esperienze umane in cui viviamo e al quale ciascuno di noi (salvo luminose e rarissime eccezioni) ha dato un contributo pressoché nullo. Non dimentichiamoci la banalità del male e ricordiamo la specialità del bene.