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Come Sciascia diceva della Sicilia, anche la giustizia italiana è un fenomeno di “pirandellismo di natura”. Un mondo in cui i paradossi, i rovesciamenti e le parvenze della verità e del falso non appartengono alla rappresentazione della realtà, ma alla realtà stessa e la costituiscono. 

La giustizia italiana, nella sua costituzione materiale, non è un potere indipendente, ma assoluto perché liberato dalle catene del diritto e dai limiti della mera giurisdizione e assegnato a una funzione di controllo ideologico e di sorveglianza pratica di ogni altro potere, a un compito, cioè, che nelle non democrazie spetta ai chierici dei tribunali del popolo o di Dio.

Ad adempiervi in Italia, invece, è ceto clericale togato, che regola i propri conti, le proprie carriere e la propria organizzazione, nonché i rapporti con il secolo e con il mondo, in modo coerentemente clericale, con il massimo della durezza e dell’indulgenza, a seconda delle circostanze, ma sempre a salvaguardia dell’istituzione – la Chiesa, o il Partito, o la Magistratura – e del suo compito di salvezza. La giustizia italiana è andata, per così dire, “fuori ruolo”, come le centinaia di magistrati che ogni anno affollano le caselle di vertice dell’amministrazione pubblica, del Governo e degli organi costituzionali, inverando un potere, apertamente rivendicato, di indirizzo e controllo generale dello Stato.

Insomma la giustizia italiana è ormai molto di più e molto di meno della giustizia dei manuali di diritto costituzionale. È quel super-potere dei manuali dell’educazione civica popolare, da Tangentopoli in poi, che, a forza di fronteggiare tutte le questioni morali di tutti i poteri, alla fine è inciampata nella propria, che però, come quelle di Tangentopoli, non è affatto una questione morale, ma politica e istituzionale e solo eventualmente e solo conseguentemente criminale.

Cosa c’entra tutto questo con Lotti e Palamara, con Lo Voi e con Viola, con i colpevoli e i giustizieri di questa storia raccontata dalle fazioni vincenti e dai loro giornali di riferimento, contro le fazioni perdenti, con le spiate sugli incontri notturni dei magistrati e dei politici carbonari e con le carambole della valanga di intercettazioni sulle carriere di uno, due, tre, quattro e poi abbiamo perso il conto, membri del CSM? C’entra in modo diretto.

Se i magistrati italiani si limitassero ad amministrare la giustizia, senza pretendere di incarnarne il potere sacrale e terribile, le questioni di potere interne, viste le dimensioni (meno di 10.000 persone) e la funzione del ceto togato, sarebbero risolte con una razionalità burocratico-corporativa. I rapporti con la politica, che i padri costituenti vollero consustanziali al funzionamento dell’organo di autogoverno, il CSM, non a caso presieduto e vice-presieduto da due politici eletti dal Parlamento, sarebbero più o meno negoziati “sindacali”, come sugli stipendi, dove i magistrati e le loro rappresentanze – come quelle dei militari, delle forze di polizia, dei prefetti, dei diplomatici e dei professori universitari (settori cosiddetti “non contrattualizzati”) – trattano direttamente con il Governo e con il Parlamento. Nella peggiore delle ipotesi, il rischio sarebbe quello di una deriva, parola in voga, castale.

Invece qui siamo al vero e proprio rischio democratico, alla vera destabilizzazione dell’architettura dei poteri. E ci siamo arrivati perché la giustizia è esondata, spinta dalla retorica dell’o-ne-stà di vecchio o di nuovo conio, in terre che non le dovrebbero appartenere, venendo presentata, e finendo per sentirsi, la vera rappresentante del popolo, la vera alternativa pulita, perché non partitica, non parziale, insomma non democratica, alla politica del Palazzo.

Per questo – elementare Watson – la giustizia ha finito per identificarsi con le procure e con giudici che non sono neppure giudici, ma magistrati della pubblica accusa e che chiedono i processi, la condanna, la galera... E per questo le nomine ai vertici delle Procure sono le più desiderate e temute, da una parte e dall’altra del confine sempre più labile e mobile tra potere politico e potere togato.

Con una conseguenza ulteriore. La giustizia come passpartout dell’indignazione e della rabbia popolare, la giustizia chiamata a “fare giustizia”, non ad amministrarla, ha trasformato la legalità in un fantasma ideologico, portando di fatto all’oblio della legge o al suo sputtanamento, alla manomissione emergenziale degli istituti di diritto e all’affermazione di una giustizia pre-processuale, consumata sulla pubblica piazza con le veline dell’accusa date in pasto all’utente della giustizia collettivo. È esattamente il caso Lotti-Palamara, di cui tutti discutiamo da giorni in base a intercettazioni ambientali disposte illegalmente (a carico di un parlamentare), illegalmente trasmesse a giornalisti amici e illegalmente pubblicate. E senza che gli unici reati certamente compiuti in questa vicenda, gli unici fatti davvero accertati, rilevino in nulla nel giudizio o nella valutazione realistica della guerra di trojan per la Procura di Roma e del conseguente terremoto nell’Anm e nel CSM.

Così dobbiamo tutti continuare a guardare il dito di Lotti/Palamara, e a non vedere la luna di questo gioco scoperto di spiate e di soffiate. L’unica cultura della legalità accettabile, in Italia, è figlia di questo ricatto.

@carmelopalma