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Qualche giorno fa Oliviero Toscani si dichiarava pronto a ritrarre Paolo Gentiloni, Graziano del Rio, Carlo Calenda, Maurizio Martina, Giuliano Pisapia ed Emma Bonino per promuovere “un grande manifesto di resistenza” contro l’attuale governo. L’Onorevole Alessandro Fusacchia, deputato di Più Europa eletto nell’omonima ripartizione, ha risposto pubblicamente al fotografo segnalando delle figure già saldamente resistenti al Parlamento Europeo e nella politica transnazionale – come Elly Schlein (eurodeputata per il PD) ed Andrea Venzon (fondatore del movimento paneuropeo VOLT) – che in quella foto avrebbero avuto da altrettanto a piú senso. Poco piú che trentenne la prima e ventiseienne il secondo, a Toscani i loro nomi erano probabilmente sconosciuti.

In questi giorni, su Facebook, ho intercettato una conversazione in cui un commentatore suggeriva al (ri)nascente movimento di Più Europa di “coinvolgere forze e personalitá della cultura liberaldemocratica” proponendo – ometterò i cognomi – Bruno, Massimo, Stefano, Giulio, Maurizio, Tito e Francesco. Personalità più o meno conosciute, scontatamente qualificate e che, secondo questo commentatore, sarebbero funzionali ad “allargare il campo”.

Ora, qual è il campo comune circoscritto da questi due appelli? Quello pressoché integralmente maschile che domina la scena politica italiana da sempre. Non l’avevate notato? Se la risposta è no, questa mia riflessione vi riguarda da vicino. Se sì, probabilmente vi riguarda ancora di più.

Possiamo considerare una coincidenza che due appelli distinti ma dalle finalità simili abbiano circoscritto quel medesimo campo? Certamente. È ragionevole ipotizzare che l’assenza di figure femminili tra i chiamati alle armi sia del tutto non intenzionale? Senza dubbio. Sarebbe opportuno che le donne fossero equamente rappresentate in questi appelli – come in qualunque altro ambito – esclusivamente in quanto donne? Nessuna donna qualificata per quegli ambiti risponderebbe sì a questa domanda.

Il punto dolente di questa istintiva circoscrizione delle “personalità che contano” nella politica italiana a degli uomini è la sua sospetta ricorrenza; ed il fatto che pochi, pochissimi rappresentanti segnalino pubblicamente l’accecante assenza di donne tra i riferimenti necessari a contrastare la deriva del Paese.

Che il Governo Conte conti cinque ministre su diciotto – due tra i dodici con portafoglio – non ha suscitato perplessità più durevoli di un tweet. Che dei trenta capitoli del contratto che ha generato quel governo non uno sia dedicato all’equità intergenerazionale e di genere, sospetto sia percepito come un tema di rilevanza accademica. Che la rappresentazione della donna nel suddetto contratto sia limitata a quella di destinataria delle politiche a sostegno della maternità non ha sollevato che qualche labbro femminile, e qualche sopracciglio femminista. Nessuna reazione corale. Opposizione non pervenuta.

Dal mio osservatorio olandese, quello che – al pari di tante donne italiane – percepisco come un limite strutturale per lo sviluppo del Paese sembra vissuto, da larga parte di chi ci vive, alla stregua di un problema di costume; o, peggio, come il tormentone periodico di donne che non saprebbero “farsi avanti” (osservazione che diventerà più chiara in seguito). Eppure, l’Italia è da sempre tra le ultime democrazie occidentali per rappresentanza di donne in Parlamento. Come sono da sempre i partiti liberali e quelli conservatori ad includere meno donne tra la loro dirigenza ed i loro eletti. Mentre tra il 1975 ed il 1989 i maggiori partiti aumentavano la rappresentanza di donne in Parlamento dal 2% al 14%, l’allora Partito Liberale ed il Partito Repubblicano subivano una variazione dello 0% e del -7% rispettivamente. Il Movimento Sociale restava al tradizionale 0% (Kittilson MC, 1997).

Che l’attuale governo – la cui componente pentastellata, dietro un’opportunistica diversità di linguaggio, è conservatrice e reazionaria quanto quella leghista – non brilli per equità di genere nei ruoli di leadership è in continuità storica con il rispettivo orientamento. Più allarmante è che i movimenti di opposizione, persino quelli liberali che parrebbero coltivare ambizioni paneuropee, non brillino altrettanto.

Nel 2010 l’Italia era ancora quart’ultima per percentuale di donne in Parlamento tra ventidue democrazie occidentali (Krook LM, 2010). Il trend positivo registrato nel 2016, quando quella quota arrivó al 30%, é stato amaramente controbilanciato, in un ottimo studio di Openpolis, dall’assenza di donne alla guida dei rispettivi partiti, o nella funzione di tesoriere di un gruppo parlamentare, o dal fatto che solo tre fossero alla guida dei venti gruppi complessivi in un sistema in cui “la presidenza delle commissioni permanenti, vero fulcro dell’attività legislativa, è appannaggio maschile in 12 casi su 14 in entrambe le camere” (Openpolis, 2016).

Che la cultura organizzativa italiana sia caratterizzata da forte mascolinitá – intesa come esaltazione culturale dell’eroismo, della competitività e del successo materiale, con tutte le chiare conseguenze sul modello prevalente di leadership – è un fatto ampiamente documentato in letteratura (per esempio, negli studi del sociologo Gert Hofstede). I dati e gli studi, insomma, non mancano. Le esperienze personali nemmeno. Mentre l’anno scorso, col mio compagno, seguivo l’intero campionato europeo di calcio femminile sulla TV nazionale olandese, non potevo non notarne l’assenza su quella italiana. Non raramente mi ritrovo ad annotare quanto i relatori di rilievo a congressi e seminari italiani di ogni natura siano quasi solo uomini. Mai come negli ultimi tempi il fatto che le figure di “saggio” e “coordinatore” dei movimenti politici che si sono proposti come alternativi agli altri siano sempre stati uomini mi ha causato un profondo disagio. Disagio, perché ne faccio esperienza come di un’anomalia; profondo, perché non sempre avverto il medesimo disagio in quanti ne fanno esperienza con me.

Quando, al commento sulla necessità di “allargare il campo”, ho risposto facendo notare l’assenza di figure femminili tra quelle chiamate a questa nobile missione, qualcuno ha reagito scrivendo: “fatevi avanti”. Reazione che, al netto delle buone intenzioni, invia il seguente messaggio: care donne, non lamentatevi. Non aspettate di venire coinvolte. Fatevi semplicemente largo.

Come se noi non lo facessimo. O non lo facessimo abbastanza. O non lo facessimo abbastanza bene. Percezione che riporta alla radice del mio disagio: ossia al fatto che, sebbene lo spazio dirigenziale e decisionale in Italia continui ad essere occupato principalmente da uomini, questo non sia percepito come un problema. Non dagli uomini, appunto; che operano in quello spazio percependo, più o meno inconsciamente, che i ruoli di leadership sono a loro destinati; e che concludono, quando vengono confrontati dall’assenza di donne in quei ruoli, che queste non abbiano semplicemente fatto abbastanza. Senza interrogarsi su quanto l’eventuale competizione per quei ruoli sia realmente avvenuta in condizioni di concreta paritá.

Il non interrogarsi su queste condizioni è all’origine della sbrigativa liquidazione della questione. Ed anche dell’amara ironia che condivido regolarmente con le amiche, colleghe e compagne più vicine. Con quelle 15-20 donne sparse tra l’Italia e l’Europa che conoscono bene quanto me tanto la difficoltá di opporre argomenti a quella sbrigativitá, quanto la resistenza che quegli argomenti tendono a suscitare.

Tutte donne che, naturalmente, contrastano con la rinascente narrativa nazionale che vuole la donna italiana rilevante solo per le politiche di sostegno alla maternità. O per quella, più subdola, delle quote rosa, stortura palese di un sistema palesemente distorto. Donne con competenze e visioni parimenti innovative su economia, lavoro, cultura, famiglia, tecnologia e scienza. Donne che, ad un livello di esposizione proporzionale alle loro competenze, si aggiungerebbero a quante offrono ai nostri ragazzi un modello alternativo a quello della madre deputata al sacrificio; e che, a partire dalle aree più svantaggiate del Paese, contribuirebbero ad innescare quel meccanismo virtuoso capace di promuovere aspirazioni più paritarie ed opportunità più eque. Ossia ad allargare l’unico campo che andrebbe veramente ed urgentemente allargato: quello dell’auto-determinazione e delle opportunitá individuali.

Ma soprattutto, quelle donne sono cittadine europee con cui basterebbe chiaccherare delle loro esperienze nel mondo del lavoro e dell’associazionismo politico italiano per rivalutare l’appropriatezza di liquidare la loro mancata o insufficiente esposizione con un semplicistico “fatevi avanti”. Commento a cui, per concludere, ho risposto: “fateci spazio”. Due parole. Che mi hanno lasciato un senso di imbarazzo, il sospetto di non essermi espressa in modo intelligente, e la certezza di essere sembrata puerile. Perché sono due parole del tutto insufficienti per convogliare quello che moltissime donne, capaci, vivono, e che troppi uomini (distratti?) ignorano.