CEDU

I recenti fatti di cronaca che hanno sollevato numerose e aspre polemiche in merito alle modalità di svolgimento dei concorsi universitari, ponendo interrogativi di trasparenza, muovono da un episodio fattuale simile oggetto di una recente – 18 maggio 2017 – pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Nel caso Petrie contro Italia, il cittadino britannico Petrie, presidente dell’Associazione dei Lettori di Lingua Straniera in Italia, nell’ambito di una riunione della commissione per l’occupazione e per gli affari sociali del Parlamento europeo sul tema della posizione degli insegnanti stranieri presso le università italiane, citò due presunti casi in cui accademici stranieri sarebbero stati valutati in modo incoerente ed arbitrario da parte di un’università italiana, affermando che “ciò è successo perché in Italia c’è un sistema il cui nome, raccomandazioni, è difficilmente traducibile, deriva dalla parola raccomandare” (There is a system in Italy, and it’s difficult to translate, the word is “raccomandazioni”, it comes from the word “to recommend”). Due professori ivi presenti, in un successivo incontro cui era presente anche Petrie, memori dell’episodio, affermarono che fra gli astanti si trovava un una persona che davanti alla commissione del Parlamento di Bruxelles aveva accusato l’Italia di essere il Paese della mafia.

Tralasciando il complesso iter giudiziario, che non rileva ai fini del discorso, la Corte offre, nella sua decisione, un’interessante prospettiva dei due principî, entrambi protetti sia da norme di rango costituzionale che ritenuti meritevoli di tutela nell’alveo europeo dalla Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo.

I due principî sono però a continuo rischio di conflitto: infatti, quanto più si espande la tutela alla vita privata, che ricomprende al suo interno la reptazione e l’onore, che sono patrimonio dell’integrità morale e dell’identità personale, tanto più si comprime sino ad affievolire, in una logica di proporzionalità inversa, la libertà di critica. E viceversa in una costante simmetria; con il rischio che l’ampliamento a dismisura della prima conduca all’assenza di limiti e regole, e quello della seconda ad una deriva di ipercontrollo di matrice orwelliana.

Il punto è trovare il bilanciamento tra i due opposti interessi. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in quest’ambito, svolge un’imprescindibile opera armonizzatrice dei diritti particolari degli Stati membri – che spesso presentano significative diversità da Paese a Paese –, con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Se dunque è la sovranità statuale a stabilire i margini di protezione e i confini oltre ai quali si configurano gli abusi, è di solare evidenza quanto sia imprescindibile, in un panorama europeo, che a tali principî sia offerta tutela in modo quanto più uniforme possibile.

Ciò si riverbera in un ruolo immediatamente (ed eminentemente) giuridico della Corte, cui fa da contraltare un ruolo mediatamente politico, siccome l’adeguamento della giurisprudenza dei Paesi membri ai principî europei viene spesso seguìto da modifiche legislative interne. Ed è ben noto quanto la norma, all’interno dello Stato, sia in grado di orientare i comportamenti dei consociati. In altre parole, se la legge consente di porre in essere determinate azioni, la percezione della loro meritevolezza crea un condizionamento nella generalità dei cittadini che conduce ragionevolmente a porle in essere.

Nel caso concreto la Corte ha deliberato che, tenuto conto della pari dignità dei beni della vita protetti, da un lato, dal diritto all’onore, e, dall’altro, da quello di libertà di critica, esiste un terzo spazio fra le due opposte sfere, una zona concentrica ove accade che anche i contesti pubblici possano eccezionalmente rientrare nell’ambito della vita privata.

La reputazione e l’onore di una persona, quindi, sono patrimonio della sua identità personale e integrità morale, principî che fanno parte dell’ambito della cosiddetta “vita privata” anche quando la persona si trova in pubblico. La Corte, nel giudicare il caso, ha ricavato un importante principio di diritto, secondo cui intervenendo in un dibattito di interesse pubblico in un ambito istituzionale internazionale, l’individuo si espone volontariamente alla critica, e conseguentemente la soglia della tollerabilità deve necessariamente innalzarsi.

Forse, più sdrucciolo è il terreno sul quale si addentra il Giudice europeo dopo aver risolto la questione di diritto, ossia l’uso del termine “mafia” per indicare le presunte raccomandazioni, termine spesso usato, spiega la Corte, nel linguaggio corrente a prescindere dalla sua connotazione etnica e storica, aggiungendo che la parola “raccomandazioni” evoca l’idea di un centro di potere elitario, privo di trasparenza e che favorisce i suoi membri a scapito di qualsiasi criterio meritocratico. L’assimilazione dell’opacità di alcune situazioni alla mafia probabilmente è eccessivamente tranchant, ma d’altronde è noto come il significato attribuito ad alcune parole non sia statico, bensì si evolva, estendendosi o restringendosi a seconda delle prospettive e dei differenti contesti storici, geografici e ideologici.