crepa strada

La secessione, come ogni altro atto rivoluzionario, può essere moralmente giustificabile in caso di oppressione, ma chiamarlo diritto costituzionale significa confondere i termini della questione. Andrew Jackson

La questione di fondo
Tralasciamo ogni commento sul vergognoso intervento ai seggi del Governo di Mariano Rajoy, intervento che si commenta da solo e che rivela una notevole inettitudine politica, se non altro perché ha portato molti argomenti a favore della causa catalana. E tralasciamo anche di trattare dello scontro intervenuto fra Catalogna e Governo centrale negli ultimi dieci anni. Senza voler sminuire tali questioni, quella di fondo ci sembra un’altra e cioè se sia ammissibile, in generale, una secessione da parte di una comunità non oppressa, una secessione a piacimento. Discorso che vale per la Catalogna (che non è regione oppressa, anche se certa propaganda sostiene il contrario), ma che vale per tutte le istanze secessionistiche che si aggirano oggi per l’Europa. E siccome, come diceva Edmund Burke, “Quando la casa del vicino comincia a bruciare non è male che le pompe lavorino un poco anche sulla nostra”, le riflessioni che seguono sono rivolte anzitutto ai miei concittadini in Veneto.

Secedere a proprio piacimento
La questione della legittimità di una secessione a piacimento è questione non di poco conto, perché se da una parte il diritto internazionale continua a dimostrarsi riluttante rispetto ad una simile ipotesi, relegando la secessione a rimedio estremo per il caso in cui sia resa necessaria da uno stato di occupazione od oppressione, dall’altra si stanno moltiplicando i tentativi di teorizzare la secessione come istituto democratico costituzionalmente legittimabile. Ciò soprattutto dopo la famosa sentenza del 20 agosto 1998 con la quale la Corte Suprema del Canada ha affermato che la Costituzione non è una camicia di forza (“The Constitution is not a straitjacket”) e che in presenza di richieste forti lo Stato centrale abbia il «dovere costituzionale di negoziare» i termini di una secessione, sulla base dei quattro principi che costituiscono il nucleo della Costituzione canadese: «federalismo, democrazia, stato di diritto e tutela delle minoranze». Ma possiamo ammettere una secessione a piacimento, senza particolari limiti e condizioni, senza una vera oppressione, per il semplice fatto che una certa parte di una comunità organizzata la voglia? Io credo di no.

Anarchia
Lincoln diceva che l’idea centrale della secessione è l’anarchia. Ammettere una secessione a piacimento apre la strada a forme di disgregazione progressive, che potenzialmente possono spingersi all’infinito, fino a rompere qualsiasi legame comunitario. Si chiama rischio di balcanizzazione. L’individualismo continua a piacerci come metodo per capire ed organizzare al meglio la convivenza, non come fine ad essa contrario. E non c’entra nulla l’autodeterminazione dei popoli, principio formatosi per liberare le comunità oppresse da domini coloniali o da sopraffazioni interne che ne limitino fortemente le libertà civili.

Il primato della stabilità
Ammettere una secessione a piacimento crea instabilità e incertezza nella vita di una comunità organizzata. Nessuna organizzazione avrebbe senso e nessuno vorrebbe allestirla se in ogni momento una parte aderente potesse scegliere di separarsi a proprio piacimento. E stabilità e certezza sono presupposti imprescindibili di libertà e progresso. La secessione minerebbe poi la cooperazione creando instabilità geopolitica. Le comunità più ricche sarebbero indotte a promuovere uno sviluppo prevalentemente autonomo, riducendo il tasso di interdipendenza. Ciò avrebbe due effetti in particolare: quello di impoverire ulteriormente le regioni più povere, gettando così le basi per nuovi conflitti e quello impedire programmi di sviluppo nazionali o sovraregionali da cui a lungo termine tutti avrebbero qualcosa da guadagnare.

Violenza
La violenza ai seggi non è tollerabile in alcun modo, ma c’è violenza anche nell’imporre a chi non lo vuole un processo di separazione. E’ come essere caricarti di forza in un treno che ti porta altrove.

Strumento pericoloso
Introdurre un diritto alla secessione a piacimento rischia di diventare un pericoloso strumento d’appello al popolo nella mani di facinorosi in cerca di potere e di affermazione personale. Ed anche uno strumento di ricatto perenne nelle mani delle parti più ricche di una comunità che, sotto la minaccia della secessione, potrebbero avanzare istanze difficilmente negoziabili. Il rischio è quello di istituzionalizzare una minaccia volta a conseguire benefici non giustificati nemmeno da questioni concernenti l’identità dei gruppi di minoranza e la loro tutela.

Un nazionalismo ancor peggiore
La secessione costituisce la glorificazione al massimo grado della sovranità statale e, come è stato acutamente osservato da un attento studioso dei fenomeni secessionisti, “essa finisce col veicolare un ’idea di purezza etnica come base della statualità nel XXI secolo. Idea che – per tacer d’altro – è in contrasto con tutti gli sforzi compiuti dalla comunità internazionale a partire almeno dalla fine della Prima guerra mondiale per indurre gli Stati a dar vita a ordinamenti in grado di garantire la convivenza tra identità collettive plurali”. Il nazionalismo rischia poi di assumere forme moto più settarie e discriminatorie quando viene propugnato a livello locale, perché più si restringe lo spazio e maggiormente si riduce il pluralismo.

Fiducia
Chi secede oggi, ancorché non oppresso, dà meno garanzie di unità e coesione rispetto ad altre organizzazioni pattizie a cui dovesse partecipare domani.

Secessione come rimedio estremo
Per tutte queste ragioni dovremmo ammettere la secessione solo a certe condizioni, solo nel caso di oppressione di una comunità. Al di fuori di questa ipotesi la convivenza, il confronto, anche aspro e duro, ed il compromesso diventano un imperativo. Anche la dichiarazione di indipendenza americana pose delle condizioni. Solo qualora il Governo avesse violato gli obiettivi posti nel preambolo il Popolo avrebbe avuto il diritto di rovesciarlo.

Ma - vi chiederete - se il governo centrale non ascolta? Se il residuo fiscale vede sfavorita una certa comunità? Alla prima domanda rispondo che l'ascolto va anzitutto cercato nelle forme previste dalla Costituzione e non tanto per essere bravi cittadini, ma perché da una battaglia di frattura rivoluzionaria avremmo tutti da perderci. L’ascolto va guadagnato democraticamente, insomma e democraticamente va contestato il mancato riscontro rispetto ad istanze legittime. Gli strumenti leciti non mancano. Quanto al residuo fiscale, la questione si porrebbe se il prelievo a cui siamo soggetti avvenisse senza alcuna forma di rappresentanza parlamentare. Il che non è. La battaglia si gioca quindi in Parlamento, non contro il Governo centrale. E comunque la perequazione come principio generale che tende ad un miglior sviluppo per tutti, va apprezzata.

Poi ci sono le questioni che attengono a come quel principio viene applicato. Vero. Non è accettabile che la Sicilia aumenti in deficit gli stipendi dei forestali a ridosso delle elezioni regionali. Condivido. La giusta risposta la si trova però nel federalismo, nel regionalismo differenziato dell’art. 116 Cost., non nell’anarchia e nella secessione. Se non si accetta questa conclusione, mi spiace, si deve accettare la violenza a cui ogni frattura rivoluzionaria può portare.