Vietare il burkini? Una misura da Stato etico. Come l'ISIS
Diritto e libertà
Abbiamo seguito con un certo disorientamento il dibattito scaturito attorno al c.d. burkini. L’assurda questione, però, è utile per far uscire allo scoperto una volta di più quella politica che vede nel primato dello Stato la soluzione di ogni male: un divieto come questo, infatti, è figlio di una visione assolutamente statalista della società.
È degno di quello stato onnipotente che, teorizzato da Hegel come "sostanza etica consapevole di sé", trova oggi negli stati islamici, quale quello preteso da Isis, il suo svolgimento ideale. Come sappiamo, infatti, nello stato etico lo stato risulta il fine stesso a cui devono tendere gli individui. Ogni libertà risulta pregiudicabile in funzione degli obiettivi che lo stato pone ai consociati.
Così, ad esempio, per la Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran fra i compiti dello Stato vi è quello di creare ”un ambiente favorevole per la crescita delle virtù etiche fondate sulla fede e la devozione” (cfr. art. 3), mentre “la tutela degli affari e l’orientamento del popolo sono affidati alla responsabilità di un giurista giusto e pio” (cfr. art. 5).
Al contrario, lo stato liberale costituisce soltanto lo strumento attraverso cui ciascun consociato può perseguire i propri particolari fini, con il limite fondamentale di non nuocere agli altri.
Una visione etica dello stato non è altro che un piatto d’argento offerto dai consociati a burocrati tassatori per delineare i contorni della loro soggezione. In uno stato liberale, invece, i burocrati non trovano (o quantomeno non dovrebbero trovare) la tavola apparecchiata, dal momento che l’invadenza dello stato rispetto all’individuo è soggetta a limiti ben precisi.
Il divieto di indossare il burkini è anche l’emblema della politica di integrazione seguita oltralpe, una politica definita assimilazionista ed oggi molto criticata. Figlio della cultura scaturita dalla rivoluzione francese, l'assimilazionismo si ispira ad una logica di assoluta uguaglianza formale. All'immigrato vengono concesse la cittadinanza e le tutele statuali a fronte del divieto di manifestare negli spazi pubblici l'appartenenza a determinate fedi religiose.
Assimilazionismo significa uguaglianza di Stato anche a scapito della libertà. Significa pretendere di sostituire una cultura con un'altra. Significa annullare le differenze in nome di un laicismo che si fa ideologia. Significa combattere un'ideologia con un'ideologia di senso contrario (l'onnipotenza dello Stato). Un modello profondamente statalista che alla lunga crea rancore, frustrazione ed emarginazione.
Un modello di società in cui l’uguaglianza formale va imposta ad ogni costo è un modello che mortifica le differenze culturali fino al punto di vietare una spiaggia ad una donna che voglia coprirsi interamente. Un modello di società in cui l’uguaglianza formale ammette correttivi in senso sostanziale (come quello pluralista anglosassone), invece, è un modello che riconosce le differenze culturali e mira a far frequentare una spiaggia al maggior numero di persone.
Da ultimo, un simile divieto tradisce una malintesa idea di difesa della donna contro l’oppressione. Certo, è vero: la pretesa religiosa che una donna si copra in spiaggia risulta mortificante. Ma il divieto di Stato contro un certo abbigliamento che non nuoce a nessuno è ben più avvilente. E, soprattutto, ben più pericoloso, perché opprime due volte. Opprime la donna che liberamente voglia coprirsi ed opprime la società tutta che, ammettendo una regola di “buon costume” alquanto arbitraria, sparge germi totalitari.
Pensiamo davvero che, vietandole il burkini, la donna musulmana tornerà in spiaggia in topless o in due pezzi? Io credo che se ne starà emarginata in casa.
Pertanto, chi, come Vittorio Feltri, pretende che il burkini vada “bandito come è vietato inneggiare al nazismo” non si accorge di difendere un modello di stato che sta alla base proprio dello stato islamico, come peraltro lo stesso Feltri in altre circostanze ha dimostrato di ben comprendere. Un modello profondamente etico e giacobino.
Abbiamo una sfida da vincere, tutta culturale, e il proibizionismo solitamente è l'arma culturalmente meno efficace.