Tony Blair e l'Iraq: la guerra razionale e la guerra morale
Diritto e libertà
Non è chiaro perché Blair abbia deciso a un certo punto che fosse necessario deporre Saddam Hussein. Non è chiaro perché abbia deciso di farlo proprio nel 2003, né perché l’ex Primo Ministro britannico ne abbia cominciato a discutere con George Bush già nel 2001, a pochi giorni dall’11 settembre. Il despota iracheno non c’entrava nulla con Osama Bin Laden, Al Qaeda, le Torri Gemelle. Nulla con l’Afganistan dove la lotta al terrore si era di lì a poco indirizzata. Il dittatore baathista era sanguinario, imprevedibile, naturale fonte di destabilizzazione, come lo era il collega libico Gheddafi - ed entrambi lo erano da tempo. Entrambi guidati da follia laico-sterminatrice. Entrambi parte del mondo del male; entrambi tuttavia incarnazioni di un male altro da quello delle Twin Towers.
La commissione Chilcot (istituita nel 2009 dal vendicativo Gordon Brown, successore-congiurato di Blair a Downing Street) non spiega il perché, che forse è inspiegabile - o spiegabile solo con il concorso di un’infinita di variabili tra cui quella umana. Quello che l’inchiesta Chilcot però dice è che le informazioni di intelligence sulle armi di distruzione di massa sono state deliberatamente “trattate” da Blair per essere fungibili come argomento pro-guerra, e a guerra già decisa. Prova, la Chilcot, come da parte di Blair vi fosse consapevolezza del rischio che il regime change in Iraq avrebbe fatto aumentare, non diminuire, il pericolo terrorismo e che, sebbene magari prima o poi si sarebbe arrivati ad un intervento militare in Iraq, nel 2003 le ragioni di forza mancavano.
La Chilcot scopre l’acqua calda, o meglio: ne stabilisce la temperatura. Quando Blair decide per l’attacco, il Parlamento è con lui, con alcune eccezioni tra cui quelle che oggi tutti ricordano perché profetiche e sofferte: quella dell’allora leader Libdem Charles Kennedy e quella del laburista Robin Cook che di Blair fu Ministro degli Esteri e in quella circostanza lasciò il governo. Kennedy e Cook, entrambi prematuramente scomparsi, all’epoca vennero fatti bersaglio di attacchi spietati da parte dei patrioti mediatici come il Sun, che oggi cancella la pagina web in cui invitava i lettori al simpatico gioco del tiro all’oppositore.
A poche ore dalla pubblicazione del rapporto che racconta il making of della guerra, tredici anni e decine di migliaia di morti dopo, Blair però insiste: fu la decisione giusta e il mondo senza Saddam è un mondo migliore. Alastair Campbell, che di Blair è stato lo spin doctor (molto più di un funzionario alla propaganda), interviene anche lui, e difende l’ex primo ministro con un argomento ultimativo che è un non-argomento: su di lui gravava la responsabilità di prendere una decisione - scrive - e lui l’ha presa.
C’è chi a Blair dà del bugiardo, chi lo vuole criminale di guerra, chi spiega la cosa come un accecamento da fede. Nella Chilcot però ci sono le missive che Blair mandava a Bush. Per i non-testimoni dei fatti c’è insomma modo di farsi un’idea del Blair-pensiero, del Blair-stato d’animo in presa diretta. Da quelle missive si legge come, già a poche ore dall’11 settembre, in Blair la guerra a Saddam cominci a costruirsi “ideologicamente”. Il making of della guerra sembra in realtà un processo di costruzione ideologico-mediatica della “giusta causa” alla rimozione di Saddam.
Saddam per Blair è un "pretesto" - o se vogliamo un assunto. Il tempo aiuta a saldare i tasselli tra loro, a blindare il costrutto. Il dossier gonfiato sulle armi di distruzione di massa è lo strumento necessario a vincere le resistenze della ragione. Blair configura il contesto emotivo nel quale la decisione di andare in guerra in Iraq per deporre Saddam sia fisiologizzabile dall’opinione pubblica (e da quella istituzionale), e lo fa con la materializzazione del pericolo incombente, la distruzione di massa possibile e probabile, cioè il link mancante tra il despota iracheno e le torri gemelle che vengono giù. Poi, a guerra iniziata, gli serve inquadrare la missione in un obiettivo più alto, e quell’obiettivo lui lo vuole “morale”.
La guerra in Afganistan è una guerra razionale, la guerra in Iraq una guerra morale. E qui è troppo labile il confine tra ispirazione politica e psicopatologia del potere per poterne ricavare considerazioni conclusive.