lillimedia

Titolare un congresso politico "Spes contra spem" è più impegnativo che evocativo. Parteciparvi, provando a raccogliere questo impegno, non è evidentemente facile. *

Peraltro, quando si discute della funzione e della realtà della pena, i discorsi facili non sono solo banali, ma intrinsecamente conformistici: sia che se ne ragioni come di una sorta di "variabile indipendente", per cui il principio della certezza della pena diventa quello della indiscutibilità della detenzione, a prescindere da ogni considerazione di equità e efficacia; sia che si discuta della pena detentiva, cioè del carcere in sé, come di un residuo arcaico del diritto penale, superabile nella teoria e nella pratica con poco più che un tratto di penna.

Nessuno Tocchi Caino, e in generale l'esperienza radicale, ci ha insegnato anche sulla questione della pena e della detenzione a ragionare tenendo insieme la radicalità e la concretezza dell'approccio riformatore, sulla base di un'intelligenza onesta della realtà delle carceri, ma anche dei processi giudiziari che la precedono o l'accompagnano.

Da membro dell'attuale esecutivo potrei rallegrarmi dell'obiettivo miglioramento delle condizione di detenzione e dell'efficienza di alcune misure deflattive del fenomeno del sovraffollamento, senza dimenticare che questo governo ha proseguito il lavoro avviato a partire dal governo Monti. Il Ministro Orlando, a cui gli stessi radicali riconoscono una sensibilità e un impegno non comuni, si è dimostrato consapevole che quella dell'esecuzione penale è una questione sensibile, che va sottratta alla demagogia giustizialista. Ma questo miglioramento, nell'atteggiamento come nei risultati, so che non è sufficiente.

Mi permetterete allora di ragionare qui con voi non su cosa altro potrebbe o dovrebbe essere fatto per garantire la piena "costituzionalizzazione" delle carceri italiane, ma su quali dovrebbero essere, a mio avviso, i presupposti politico-culturali di questo impegno e le forme di presenza in una discussione pubblica, in cui della pena detentiva si tende a parlare come di un "dispositivo di sicurezza" universale, che può essere ordinariamente preventivo e non solo successivo alla condanna, proprio perché non adempie a una funzione strettamente penale, ma politica, morale e simbolica.

Le carceri italiane - lo dico sinceramente - non potranno migliorare se non migliora il discorso politico sulla pena o se continua ad essere egemonizzato da quanti, più che a Cesare Beccaria, sembrano ispirarsi a Giorgio Bracardi e al suo famoso tormentone: "In galera!". E il discorso pubblico non potrà migliorare se non sapremo uscire dalla logica che sembra contrapporre i colpevoli alle vittime - come a dire: “Con chi stai, con chi ha compiuto un delitto o con chi l'ha subito?” - e quindi fa automaticamente prevalere qualunque sciocchezza o violenza imposta nel nome delle persone per bene su qualunque ragione che riguardi i diritti dei detenuti. Occorre uscire da questa trappola, e occorre uscirne ogni volta che si ritorna nel discorso, non potendolo fare una volta per tutte.

Dobbiamo chiederci a cosa serva e quanto serva la galera. Per quelli che ci stanno, in galera, e per chi sta fuori e dalla galera dei primi dovrebbe essere protetto o risarcito. Questo è il punto di partenza realistico, non idealistico, di una riflessione seria sul carcere.

Prendiamo anche il caso delle più gravi emergenze, come quella del terrorismo islamista. Possiamo davvero pensare che il carcere sia una soluzione, se scopriamo sempre più casi in tutta Europa in cui proprio la detenzione ha trasformato dei ragazzi di strada in degli islamisti radicali e suggellato il passaggio dalla piccola delinquenza alla grande criminalità? Il carcere come discarica sociale non funziona, perché ad essere stoccati nelle celle non sono materiali inerti, ma persone vive che reagiscono all'afflizione e all'alienazione cercando comunque vie di fuga, e inseguendone di peggiori se non gliene vengono offerte di migliori.

In questo, il carcere è davvero come la guerra. Una risposta quasi sempre obbligata e imposta dalle circostanze, ma che non può rappresentare una via ordinaria di risoluzione delle problematiche cui il diritto penale deve porre rimedio. Proprio come la guerra, inoltre, il carcere non può emanciparsi dal diritto, avendone uno proprio, che deve essere razionale, per essere rispettato, non può fotografare i semplici rapporti di forza tra le parti e deve tenere in conto i diritti dei prigionieri.

Il parallelo con la guerra è oggi particolarmente calzante, proprio perché c'è un ampio schieramento politico che chiede insieme più guerra - in Siria - e più galera - in Italia - senza porsi neppure il problema del fine a cui questi mezzi dovrebbero servire, ma volendo dare demagogicamente il segno di fronteggiare un'emergenza incombente.

Il governo così è oggi costretto a rispondere a accuse surreali: da una parte di volere liberare i delinquenti, per avere aperto in maniera molto cauta a misure alternative alla detenzione, e di non volere combattere i terroristi, per il solo fatto di non essere partito lancia in resta, dopo gli attentati di Parigi, a bombardare da qualche parte, anche a caso, nello scenario siriano. Come se, peraltro, le migliaia di soldati italiani impegnati sul campo, dall'Afghanistan, al Libano, all'Iraq non esistessero.

Per tornare al titolo e al tema di questo congresso - Spes contra spem - penso che la speranza che noi dobbiamo coltivare è quella di una politica che si fa forte e fiera dei propri principi di diritto. Perché, come Pannella non si stanca di ricordare, una politica e una galera senza diritto o contro il diritto sono destinate a diventare un'uguale e indistinguibile barbarie.

* Testo dell’intervento scritto per il VI Congresso di Nessuno tocchi Caino dal tema: "SPES CONTRA SPEM. Basta pena di morte e pena fino alla morte"