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Ei fu, ma la sentenza non si prospetta né ardua né destinata ai posteri. L’unicità di Silvio Berlusconi risiede proprio nel suo essere già stato quotidianità, cronaca e storia per generazioni di italiani. Nell’essere stato per decenni larger than life e riferimento su cui un Paese si è diviso e definito. E speriamo di non passare per presuntuosi “recentisti” (si direbbe nel gergo di Wikipedia) se le formule che rimandano agli storici il giudizio sull’operato dei suoi governi e sul suo ruolo politico ci appaiono come paludate omissioni, che trattano come presente da interpretare nel futuro quella che è storia già metabolizzata.

Si potrà dibattere in eterno del ruolo culturale del Berlusconi imprenditore; di quanto sia stato causa e quanto sintomo di una americanizzazione della società comunque inevitabile; quanto seminatore e quanto vendemmiatore di una certa estetica e di certi status. Quanto arci-italiano e quanto plasmatore degli italiani. Ma dal punto di vista strettamente politico il bilancio passa da maglie molto più stringenti e ineludibili: le riforme liberali sono mancate; la giustizia non ha tratto giovamento dalla sua guerra ad personam con la magistratura; la gestione dei conti pubblici è stata scadente e a tratti scellerata, in un periodo benedetto dalla riduzione dei tassi d’interesse. Il dibattito pubblico ha conosciuto un oggettivo scadimento di cui Berlusconi è stato concausa se non attore principale. Nel campo culturale della destra sono stati piantati e coltivati semi di un populismo sovranista ben lontano dai conservatorismi europei di governo.

Se la sinistra ha conosciuto una propria elaborazione post-antiberlusconiana, abbracciando fasi opposte (in primis quella renziana) e diverse, anche attraverso una frammentazione della fu orda ostile al Caimano, lo stesso non può dirsi della destra italiana. Non solo nella misura e modalità in cui Meloni e Salvini sono emersi in un campo che aveva in comune col tardo berlusconismo molto più di quanto i toni patinati e il sole in tasca del ‘94 potessero far pensare. Ma anche in quei sempre più esigui e da sempre marginali spazi di riflessione contigui al primo berlusconismo. Oggi, in sostanza, il Foglio e quasi niente altro. È sconcertante come Claudio Cerasa, sul suo quotidiano e in tv, dipinga Berlusconi come “anti-populista”, “argine ai populismi che ha fatto coincidere la propria libertà con quella degli italiani”. Ma questi virgolettati, di per sé, non rendono l’idea: Berlusconi appare come un campione di liberalismo e civiltà a 360 gradi; il portatore di una “rivoluzione antipopulista” (“Un solo punto fermo: di là la strategia del rancore, di qua la politica del sogno”); un antinazionalista incrollabile. Naturalmente, leggiamo che è stato l’eroe della battaglia contro il circo mediatico-giudiziario e dello stato di diritto contro la gogna, ma in modo meno scontato apprendiamo anche che “ha combattuto contro gli istinti di una Repubblica fondata sul complottismo”. E come dimenticare il suo liberismo: “ha combattuto contro i poteri di una Repubblica statalista incapace di veicolare la libertà veicolata dal libero mercato”.

Anche in politica estera, i severi censori di ogni incertezza sul sostegno all’Ucraina offrono attraverso la penna di Micol Flammini un’analisi dell’affettuoso putinismo del Cav. Si riparte da Pratica di Mare, che emerge come tornante della storia mondiale (ci sarebbe quasi da ribattezzare il secolo breve in “secolo lungo” e chiedere ai solerti revisori di Roald Dahl di adeguare all’oggi anche la più nota opera di Hobsbawm). Dopo di che – dissolvenza – si passa all’invasione del 2022: “La guerra russa contro l'Ucraina non ha soltanto svelato la brutalità di Putin - che Berlusconi, Bush e Merkel non avevano evidentemente colto - ma ha anche sancito la disfatta di Pratica di Mare, dell'apertura tra Russia e occidente, di tutto ciò che era stato salutato come un successo ed era soltanto un'illusione. Il leader di Forza Italia non ha riconosciuto il fallimento, ha pronunciato parole che hanno fatto infuriare gli ucraini e gli europei, ma il suo partito non ha mai osteggiato la politica dei governi italiani volta a isolare Mosca”. È vero che Forza Italia non ha osteggiato il sostegno all’Ucraina, ma è insostenibile appiattire gli statisti citati allo stesso errore di prospettiva del 2002. Perché di mezzo ci sono stati due decenni di autoritarismo putiniano sempre più severo e di politica estera sempre più aggressiva. Perché il mandato di Bush si concluse in un clima di rapporti tesissimi con la Russia e il leader americano fu sempre esplicito nelle dichiarazioni successive sulla personalità di Putin e sulla malriposta fiducia occidentale. Soprattutto: perché quelle di Berlusconi non furono dichiarazioni di chi “non ha riconosciuto il fallimento”, ma sproloqui agghiaccianti che facevano propria, in tutto e per tutto, l’ideologia etnocida dell’autocrate russo.

Gli esempi riportati non sono nemmeno i più eclatanti, ma sono indicativi di una assenza di elaborazione che sarebbe non solo possibile, ma doverosa, proprio da parte di chi non è mai stato “antiberlusconiano”. E le riflessioni in altre sedi, nel corso di questi decenni, non sono ovviamente mancate. Lo storico Alessandro Orsina, ne “Il berlusconismo nella storia d’Italia” qualifica il fenomeno come “una emulsione di populismo e liberalismo”. Emulsione, per indicare che populismo e liberalismo sarebbero rimaste sostanze distinte e non sciolte l’una nell’altra, e perché si tratterebbe di due componenti che hanno avuto lo stesso peso: “per questo sarebbe improprio parlare di populismo liberale o liberalismo populista, perché entrambe le formule sbilancerebbero il fenomeno su un lato o sull’altro” (p. 126). Va detto che l’opera di Orsina risale al 2013 e dunque non comprende un decennio di politica berlusconiana (quello meno rilevante, ma anche più misero). Forse ancora di più in forza di tale ultima fase, ci riesce difficile non qualificare quello di Berlusconi come populismo, pur di tipo liberale anziché sociale. Nell’insidioso polisemanticismo della terminologia politica, intenderemo per populismo “movimento politico diretto all'esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari”. Di questa concezione Berlusconi è stato splendente e pionieristico interprete, e lo stesso Orsina cita più volte la nota metafora di Giolitti che spiegava la politica alla figlia Enrichetta: “Il sarto che ha da vestire un gobbo, se non tiene conto della gobba, non riesce”.

Il dibattito sulla concezione politica di Giolitti è ancora aperto, ma nessuno può negare che il rapporto di Berlusconi con l’elettorato abbia sempre poggiato non solo sull’adattamento ai loro difetti ma proprio sulla loro celebrazione, interpretazione e incarnazione. Il liberalismo di Berlusconi non fu “Stato leggero”, bensì ipo-politica; ancor più che ipo-politica, fu una forma di iper-privato. La sua legislazione un eterno sabato che è fatto per l’uomo e non viceversa; la sua economia di mercato una piazza in cui tutto si accomoda; la sua politica estera la proiezione di amicizie personali; la sua giustizia una battaglia ad personam per il bene di tutti. Il suo privato un vero e proprio un sultanato imprudente e ingenuamente ritenuto al riparo da qualsiasi sguardo.

Il suo lavoro di adattamento al reale fu sempre anti-pedagogico e anti-ortopedico, eppure, come evidenziato dallo stesso Orsina, la “rivoluzione liberale” promessa nel ’94 e agitata come slogan sempre più vacuo per decenni sarebbe potuta avvenire solo mettendo in campo risorse specificamente politiche, pedagogiche se non ortopediche. Come ha scritto il giornalista Paolo Mossetti: “Cosa rendeva veramente unico Berlusconi, prima ancora del suo strapotere economico? Il fatto che, prima di lui, nessun leader politico del Dopoguerra aveva mai osato affermare in modo così netto, esplicito e spudorato che gli italiani andassero bene così come sono. Ecco perché il suo populismo, nella prima fase anche piuttosto ottimistico e costruttivo a differenza del disperato sovranismo contemporaneo, si basava tutto sul rigetto della pedagogia comunista e dell'ortopedia progressista. Berlusconi era per l'Italia stanca delle sinistre, del perimetro antifascista e dei grigi burocrati il cartellone pubblicitario sul ciglio della strada di cui parlava Don Draper nel primo episodio di Mad Men, quello che sembra guardarti e gridarti, mentre stai guidando, «la rassicurazione che qualunque cosa tu stia facendo, va bene così. Che tu vai bene così»”.

La mancanza di una seria elaborazione post-berlusconiana, proprio da parte di chi lo ha sostenuto e apprezzato, è un ulteriore sintomo di questo rapporto infecondo con la politica; di una appartenenza quasi familistica, più che interessata. E non potrebbe in alcun modo contribuire alla promozione di una cultura riformatrice seriamente proiettata sul futuro. Berlusconi, dopo la prima meritoria, pregevolissima, sconfitta sulle pensioni nel ’94, ha vinto soprattutto assolvendo gli italiani. Il dibattito pubblico attuale sta ricambiando con una diffusa indulgenza. Una storia italiana, senza dubbio. Oggi assistiamo con i funerali di Stato a una piazza straordinariamente scarna di personalità internazionali e a una folla che canta “chi non salta comunista è”. L’iper-privato degli italiani.