Stadio Juve grande

Il progetto della Superlega di calcio è immediatamente naufragato con il ritiro delle sei squadre inglesi e di qualche altro club. Evviva! Scampato il pericolo dell’assassinio morale del calcio, il prossimo anno calcistico sarà tre volte Natale e festa tutte le partite… e il Palermo potrà anche vincere la Champions League.

No, forse questo è troppo. Anzi no. Non è una cosa impossibile e nemmeno è molto difficile che ciò avvenga. Sarebbe sufficiente che un ricco sceicco emiratino decidesse, bontà sua, di comprare la società per portare ai vertici del calcio mondiale la squadra palermitana, magari per rivivere i fasti della stagione araba della città, affiancando agli straordinari tesori artistici di ieri una futuristica bacheca di trofei calcistici.

D’altronde, qualsiasi favola ha bisogno di un principe e chi meglio di un ricco sceicco può rappresentare il personaggio del principe? Peraltro negli anni questa bella favola si è manifestata in più di un’occasione, con l’acquisto di squadre da parte di facoltosi magnati, che hanno trasformato squadre relativamente modeste in leggende, a partire dal mitico Milan di Berlusconi fino al mirabolante Paris Saint-Germain di oggi.

Eppure la realistica osservazione di alcuni dati dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che il calcio, come quasi tutti gli sport, ha assunto da tempo una dimensione economica e finanziaria da cui non si può prescindere. Basta osservare che in Italia sui 114 campionati nazionali svolti, ben 89 volte ha vinto una dalle squadre di queste tre città: Torino, Milano e Genova. Naturalmente è solo una singolare circostanza che le squadre più blasonate del calcio italiano siano state le squadre delle principali città del triangolo industriale italiano e che le vittorie di squadre del centro sud si possano contare sulle dita delle due mani. Guai a credere che ciò abbia avuto qualche attinenza con l’asimmetrica distribuzione della ricchezza. Qualcosa di analogo accade negli altri campionati nazionali, almeno quelli più importanti, e nelle competizioni europee, soprattutto la Champions League.

Beninteso, non si vuole difendere una proposta, quella della Superlega che probabilmente non era stata ben preparata, se a sole 24 ore di tempo ha registrato il ritiro di più della metà dei suoi promotori, ma evidenziare la retorica ipocrita che domina il dibattito pubblico europeo e che forse è una delle principali ragioni del suo arretramento rispetto ad altre aree geografiche, che governano i processi della società contemporanea con maggiore realismo.
Si pensi ad esempio alle grandi leghe sportive statunitensi che registrano dati economici assolutamente migliori di quelli del calcio europeo malgrado abbiano un seguito minore di tifosi nel mondo. Il caso più eclatante è la NFL che ha circa 300/400 milioni di tifosi al mondo ma fattura a livello televisivo più del doppio (6/7 miliardi) della Champions, che ha una platea di circa 3 miliardi di appassionati.

Dunque al di là dei retorici appelli al merito sportivo - la cui demagogia si può indirettamente dimostrare con l’assoluta trasversalità nazionale e politica: tutti uniti contro la deriva affaristica del calcio, anche chi venderebbe (o ha già venduto l’anima al diavolo) per denaro o potere - la questione di immaginare una competizione che consenta di svolgere un maggior numero di partite tra le squadre più forti e di maggior blasone (o meglio con un alto potenziale di pubblico televisivo), cioè titolari di un marchio sportivo globalmente riconosciuto, prima o poi dovrà essere affrontata, ancorché con un’altra formula organizzativa, preferibilmente meno controversa e divisiva.

La vera verità è, infatti, che il mondo del calcio nuota in un mare di debiti e la pandemia ha reso più ardua la sostenibilità finanziaria di molte società. Possiamo stabilire che non sia un problema e sognare infantilmente un mondo dove i giocatori giochino per l’amore della maglia e non per il vile denaro oppure fingere ipocritamente che già oggi le competizioni non siano condizionate dallo strapotere economico di certi club che raggirano le regole del Fair Play finanziario, anche con operazioni platealmente elusive dei divieti, come ad esempio il ricorso ad una maxi sponsorizzazione.

Forse, la vicenda della Superlega dimostra ancora una volta l’arretratezza mentale europea che, a fronte della declamazione dei più alti principi morali e civili, presenta regole di funzionamento dei propri mercati meno avanzate rispetto a quelle del Nord America: un’area geografica che da tempo ha abbracciato la formula di competizione chiuse nei suoi principali sport di squadra (Football, Basket e baseball) con l’adozione di severe norme concorrenziali che consentono una certa sostanziale competizione all’interno della Lega. Ma volete paragonare la versione liberista e selvaggia dello sport a stelle e strisce che costituisce la negazione del merito sportivo, al punto che notoriamente tutti i “peggiori” giocatori del mondo giocano in quelle leghe (che possono essere considerati dei campionati del mondo per club), con la versione romantica del calcio europeo?

Infatti, la versione europea del calcio è talmente romantica che attira autentici filantropi come lo sceicco Nasser Al-Khelaifi, il magnate russo Roman Abramovič, l'imprenditore cinese Zhang Jindong, la Exor o la Elliott Management Corporation, che con spirito di liberalità si prodigano per il bene dell’umanità. Si badi bene non si vuole demonizzare affatto questi personaggi o società, tutt’altro: è merito loro se i club di cui sono proprietari hanno conseguito (o stanno conseguendo) importanti risultati sportivi, attraverso la predisposizione di una valida e congrua rosa di calciatori, molti dei quali fantastici campioni che accendono l’entusiasmo delle rispettive tifoserie e di tutti gli amanti del calcio. In verità, l’apporto di importanti capitali, anche esteri, è un indice della ricchezza (in senso nobile) del calcio europeo che ha semplicemente bisogno di una sua gestione manageriale, perché lo sport mondiale è oggi un’importante settore dell’entertainment, una delle più fiorenti “industrie” delle società contemporanee.

La Super Lega non è stata una buona idea. Amen. Non è un problema, ma adesso l’Uefa ne elabori una migliore che consenta il raggiungimento dell’analogo fine, cioè aumentare significativamente la redditività delle competizioni europee, magari assicurando, ove ciò sia davvero possibile, una maggiore apertura per la partecipazione.
Ma la vera lezione che forse occorre trarre da questa vicenda è che sia necessario acquisire processi di analisi dei fenomeni contemporanei meno moralistici, onde evitare di essere travolti dalla realtà. In Europa, ad esempio, spesso si bloccano importanti operazioni di fusioni societarie per la tutela del mercato comune, senza accorgersi che in assenza di campioni europei di dimensioni mondiali rischiamo di avere un futuro meno roseo. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi ed estendersi ai meccanismi decisionali pubblici europei e italiani, troppo farraginosi e lenti e spesso inidonei a renderci competitivi con i nostri principali competitor.