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Trump, Le Pen, Salvini e simili saranno un domani ricordati come abili oratori ed esperti comunicatori, capaci di attrarre intorno a sé l’attenzione mediatica e infiammare il popolo a cui si rivolgevano, ma probabilmente non molto di più. In un anno il mondo è cambiato e la lettura populista della realtà potrebbe cominciare oggi ad avere i primi cedimenti, rivelandosi un fumoso fuoco di paglia. 

Le recenti elezioni olandesi potrebbero non rappresentare esclusivamente un risultato positivo per tutti coloro che sperano che si possa arginare l’ondata di estrema destra in Europa, ma potrebbero tradursi nell’inizio della fine di un dialogo politico improntato esclusivamente sulla leva della paura. Aldilà della pesante sconfitta alle elezioni olandesi, Wilders sembrerebbe infatti aver scoperto il fianco, mostrando il tallone d’Achille della retorica xenofoba e iperprotezionista che ha pervaso diversi strati della civiltà occidentale fino ad oggi: la propria sostanziale inconsistenza se messa alla prova sul lungo periodo.

Il grande bluff dei populisti basa buona parte della propria strategia nella monopolizzazione del dibattito totalizzandone gli effetti. L’Islam nei Paesi Bassi è diventato per più di quattro mesi la sola chiave di lettura per spiegare la crisi economica, lo smarrimento culturale e l’instabilità internazionale. Durante le numerose settimane di campagna elettorale la monografia propagandistica del Partito per la Libertà ha battuto costantemente il chiodo sperando di replicare i successi della Brexit e dell’investitura a Presidente degli Stati Uniti d’America di Donald Trump, ma questa volta il meccanismo non ha funzionato.

Si sta sgonfiando la bolla? Difficile a dirsi, il voto francese potrebbe dare ulteriori elementi per suffragare questa ipotesi. Eppure qualcosa sembrerebbe muoversi in questa direzione. La retorica populista colpisce nella forma e nei contenuti ma negli Usa e nel Regno Unito il banco di prova si sta dimostrando impietoso verso chi l’ha usata per occupare lo spazio lasciato vuoto dalla crisi della democrazia rappresentativa. Donald Trump è stato costretto ad ammorbidire molte delle sue posizioni per l’impossibilità di mantenere le promesse fatte ai cittadini statunitensi e per cercare di tenere fedele a sé il mai facile Congresso di Washington. Come dimostrato dalla recente bocciatura nel voto sull’ObamaCare, nemmeno il presidente dell’impero più potente del globo può modificare una struttura politica democratica da solo: narcisismo e sfrontatezza non bastano, una volta arrivati sul trono.

Sulle isole di Sua Maestà, la Brexit ha avuto come immediata conseguenza le dimissioni di Nigel Farage, capofila delle schiere del leave, che forse ha avuto la lungimiranza di comprendere quanto sarebbe stata difficile la gestione del “dopo referendum”, con l’inizio dei duri negoziati per l’uscita da Schengen e la riapertura del dibattito sullo smembramento di un regno che era riuscito a resistere a guerre e terrorismo indipendentista. Una strategia, quella che fa leva sull’odio e sulla rabbia, che potrebbe non pagare più.

Il neurologo Paul McLean ha ipotizzato l’esistenza di “tre cervelli” corrispondenti alle varie fasi evolutive dell’uomo: il più antico, detto “primitivo”, controlla le funzioni vitali basilari come la respirazione o il ritmo cardiaco; il secondo, chiamato “cervello intermedio”, corrisponde nella scala evolutiva al cervello dei mammiferi ed è coinvolto nell’elaborazione delle emozioni; il terzo, più recente, è esclusivo dei primati ed è sede di tutte le funzioni cognitive e razionali. Secondo McLean queste tre aree lavorerebbero in modo piuttosto indipendente seppure molto spesso capiti che una delle tre predomini sulle altre.

Nei processi collettivi la razionalizzazione è un percorso ben più lungo rispetto alle dinamiche individuali eppure gradualmente pare che stiano arrivando al pettine i nodi di un voto di pancia e irrazionale. La pressoché totale incompetenza dei leader populisti messi alla prova dei fatti e la ridondanza delle loro retoriche potrebbe, con il passare dei mesi, inaridire un terreno prima fertile. Là dove l’ha radice populista ha fatto preso su un humus emotivo si stanno sviluppando lentamente i rami della razionalità.

E in Italia? Seppure in crescita, l’asse xenofobo Salvini-Meloni non decolla, probabilmente frenato da un curriculum politico fatto di inciampi e litigi che hanno inchiodato l’alleanza anti europeista di destra nel calderone dell’odiata “casta”. 

Il caso 5 Stelle rappresenta quindi l’eccezione alla regola? Un “partito anti-partito” nato dal ricordo di Tangentopoli, da vent’anni di Berlusconismo e cresciuto sul seme inconsapevole del libro di Stella e Rizzo. Un movimento che risponde perfettamente alla voglia di rivalsa e di “tabula rasa” dell’elettorato italiano.

A differenza degli altri movimenti populisti europei il M5S si presenta privo di riferimenti “storici”, un soggetto senza alcun legame con qualsiasi ideologia e modello economico, e si propone come contenitore trasversale del popolo dei delusi. A differenza dei movimenti di estrema destra non offre l’autoritarismo ma la democrazia diretta come soluzione dei problemi (seppure il caso Genova ne smascheri il meccanismo) illudendo i propri iscritti di partecipare al processo decisionale. 



Eccezioni a parte, la cavalcata dell’esercito populista sembrerebbe aver sollevato in questi anni parecchia polvere, facendo suonare i numerosi campanelli d’allarme dei moderati occidentali. Gli sviluppi di queste settimane dimostrano che la polvere, forse, si sta finalmente abbassando, e i protagonisti di questo sipario politico potrebbero rivelarsi agli occhi degli elettorati come i generali di una spaventosa ma arrancante Armata Brancaleone.