South Carolina

L’artista più rappresentativo della musica della South Carolina si chiama Josh Turner. È un cantante country con una voce baritonale incantevole. Musicalmente, il suo repertorio rientra nel filone del cosiddetto neotradizionalismo; quanto alle parole delle sue canzoni, sono intrise di una fede religiosa intensa quanto elementare. Il suo brano di esordio, tutt’ora il più celebre, esorta a rinunciare al peccato finchè si è in tempo, ribellandosi alle tentazioni come se si trattasse di saltare giù da un ideale lungo treno nero, in corsa verso il baratro, guidato dal Diavolo in persona.

Politicamente l’elettorato di quello Stato non è molto diverso: tradizione, religione, attaccamento ai vecchi valori Dio Patria e Famiglia, messaggi semplici e forti. Per questo vincere le primarie presidenziali repubblicane qui – le prime a tenersi nel Profondo Sud – non significa granchè in termini di appeal elettorale generale, ma tutt’al più rappresenta un test rispetto all’ala più conservatrice dell’elettorato del Grand Ole Party, in particolare quella più legata alla cosiddetta “Destra religiosa”. Non è poi tanto raro che chi vince qui non arrivi poi ad aggiudicarsi la candidatura: quattro anni fa, ad esempio, in South Carolina vinse Newt Gingrich, la cui candidatura poi non arrivò da nessuna parte. Ma attenzione: Gingrich non aveva vinto anche in New Hampshire. Dati alla mano, storicamente tutti gli aspiranti che hanno vinto sia qui che in New Hampshire sono poi arrivati ad aggiudicarsi la candidatura repubblicana alla Casa Bianca. Se dovessimo attenerci ai precedenti, quindi, Donald Trump avrebbe ora la candidatura in tasca, dopo la vittoria di sabato. Non sono bastate le sue sparate contro George W Bush a proposito delle stragi dell’Undici Settembre, in un dibattito nel quale ha fatto talmente la figura del cialtrone da perdere, stando un sondaggio CNN, un quarto dei suoi consensi, a fargli rivoltare contro gli elettori repubblicani di quello Stato: nonostante tutto, questa volta il miliardario populista newyorkese è riuscito nell’impresa nella quale aveva fallito in Iowa, aggiudicandosi il 32,5% dei voti e tutti i 50 delegati alla Convention Nazionale in palio.

L’altro vincitore, se così si può dire, è stato Marco Rubio, staccato di dieci punti percentuali ma pur sempre piazzatosi al secondo posto, quando ormai sembrava incapace di emergere; il conservatore texano Ted Cruz, che sulla carta pareva favorito per via della sua sintonia con la Destra religiosa, si è fermato ad un pareggio con Rubio che per un paio decimali si considera formalmente un terzo posto, per lui deludente (mentre per il giovane senatore della Florida quel 22-virgola-qualcosa% è stato pur sempre il doppio di quanto i sondaggi gli assegnavano un mese fa).

Tutti gli altri si sono fermati non solo sotto alla soglia del 20% (in molti Stati nei quali si voterà simultaneamente fra una settimana nel Super Tuesday sarà quella soglia a determinare la partecipazione o meno alla assegnazione proporzionale dei delegati), ma anche sotto a quella del 10%, e a questo punto sono relegati nella fascia della irrilevanza. Fra questi anche Jeb Bush, il quale dopo questo ultimo flop ha ritirato la propria candidatura liberando Rubio (il quale a questo punto può ambire a catalizzare tutti i consensi dell’ala moderata) dal suo principale rivale (stessa area politica e stesso elettoralmente cruciale Stato di provenienza), ed incanalando su di lui un flusso modesto di voti (che comunque, se sabato fossero andati a Rubio lo avrebbero portato ad un soffio da Trump…) ma anche un flusso assai meno modesto di finanziamenti. Perché nel fundraising Jeb si è dimostrato un fuoriclasse, anche se questo non gli è servito a granchè (com’era quella storia che nel sistema politico americano vince sempre il Dio Dollaro?).

La variabile impazzita Trump sta spaccando tutto. Esponenti del vecchio establishment come Bush avevano lungamente preparato la propria candidatura dando per scontato di doversi scontrare con conservatori di tipo consueto, come Cruz; e quest’ultimo si era mosso ragionando sull’antagonismo rispetto agli ordinari moderati di establishment. L’ascesa del “cavallo pazzo” ormai definitivamente divenuto frontrunner scompagina tutte le strategie, e pochi ormai hanno lo spazio di manovra per rivederle.

Si conferma quanto notavo dopo il voto in New Hampshire: Trump sta beneficiando della divisione nell’area a lui avversa, simmetricamente a quanto era accaduto quattro anni fa in favore del centrista Mitt Romney, miracolato da una insanabile frammentazione nell’area conservatrice. Per dirla con le parole del commentatore conservatore John Podhoretz, “il partito dei non-Trump è grande ma debole; quello di Trump è piccolo ma forte”.

Al famigerato establishment (che alcuni elettori staranno forse cominciando a rivalutare, dopo mesi di sparate demenziali di Trump) rimangono in pratica due sole opzioni: una più elementare, all’interno del partito repubblicano, ossia sgombrare il campo dagli altri e puntare tutto su Rubio prima che sia troppo tardi; l’altra, più bizantina e più indicibile, esterna al partito per così dire, consisterebbe nel convincere l’ex sindaco di New York City Mike Bloomberg a candidarsi come indipendente terzo incomodo, facendo ad Hillary (la quale sabato ha battuto Sanders in Nevada, confermando però un fiato molto corto) lo stesso regalo che nel 1992 Ross Perot fece a suo marito Bill.