Ted Cruz

Nell’anno dell’esplosione di Donald Trump, si sta parlando davvero poco, qui da noi, del candidato repubblicano che più pervicacemente gli sta contendendo la nomination. 
La scarsa attenzione nei confronti di Ted Cruz è ingenerosa verso la sua tenace campagna, che è riuscita finora a contenere lo svantaggio nei confronti del miliardario newyorkese in termini ancora recuperabili – questo malgrado Cruz non abbia in alcun modo la visibilità di Trump e malgrado abbia dovuto contendergli il ruolo di alternativa con candidati come Jeb Bush e Marco Rubio, in grado di mobilitare risorse superiori.

Il senatore Cruz ha vinto finora in nove Stati, ultimo dei quali lo Utah mormone nel quale, pochi giorni prima di Pasqua, ha sfiorato il 70%. Il risultato maturato dalle parti di Salt Lake City non è, per tanti ragioni, ripetibile altrove, ma in ogni caso si inserisce in un trend più che positivo per la campagna del candidato texano.

Rispetto al trionfo dell’opzione populista rappresentata da Trump e alla permanenza al potere della dinastia democratica, Ted Cruz rappresenta in questa fase, per sempre più persone, l’unica opzione in grado di “salvare” il Partito Repubblicano e forse la stessa idea di America alla quale da sempre siamo abituati. Chi scrive, tuttavia, è convinto che il senatore del Texas non sia semplicemente il “male minore” nello scenario politico attuale, ma rappresenti al contrario una candidatura bella, forte e interessante come da molti anni non eravamo più abituati a vedere nel Partito Repubblicano e, più in generale, nella politica americana.

Dopo Ronald Reagan, il Grand Old Party ha sfoderato una serie di candidati di appeal abbastanza limitato. Bush padre e figlio sono stati alla Casa Bianca, ma non hanno lasciato veramente il segno nella storia e nelle coscienze, al punto che sono pochi i Repubblicani di oggi che sentano il bisogno di rivendicarne l’eredità. Bob Dole, John McCain e Mitt Romney hanno scaldato ancora meno cuori; tutti esponenti dell’area moderata del partito, solo sulla carta in grado di raccogliere consensi più trasversali, non sono stati nella realtà capaci di formulare davanti agli elettori una posizione veramente credibile.

Ted Cruz non è un moderato. E’ il rappresentante di una destra “dura” e coerentemente ancorata ai valori americani di libertà individuale, governo limitato e libero mercato. Con Cruz torna il Partito Repubblicano di Ronald Reagan e di Barry Goldwater, torna cioè una visione politica che non vuole limitarsi a gestire e magari frenare un ineluttabile scivolamento verso sinistra, ma che invece si propone di riportare la libertà all’offensiva, cioè di togliere effettivamente potere allo Stato per restituirlo alla società civile. In questa sfida politica Cruz trova particolare ispirazione anche in Margaret Thatcher, alla quale nel suo libro “A Time for Truth”, dedica numerose pagine per come è riuscita ad invertire la strada intrapresa dal Regno Unito attraverso una politica basata sulla coerenza delle idee.

Il senatore texano è a mio avviso il miglior candidato sui temi economici. Forse solo Rand Paul, la cui campagna però è finita quasi subito, poteva rappresentare una garanzia ancora più solida da questo punto di vista. Cruz è un sincero liberista, invoca meno tasse e meno regolamentazioni ed è un nemico acerrimo dell’Obamacare, sulla quale ha concentrato parte importante della sua campagna.

In politica estera, pur non apparendo necessariamente incline ad un interventismo avventuriero, intende riaffermare la strategia “occidentale” degli Stati Uniti, segnando una discontinuità rispetto ai messaggi ambigui inviati al mondo dall’amministrazione Obama. Da questo punto di vista si propone di ripristinare le relazioni privilegiate tra Israele ed USA andate in crisi negli ultimi anni.

Dalle nostre parti alcuni liberali sono restii a guardare positivamente alla corsa presidenziale di Cruz in virtù della sua forte connotazione religiosa. E’ vero, Ted Cruz è una persona profondamente religiosa e la destra cristiana rappresenta una delle costituency più importanti, che gli ha consentito di imporsi alle primarie in vari Stati. Ma il rischio che le idee evangeliche di Cruz inficino la sua capacità di esprimere una presidenza inclusiva non deve essere sopravvalutato. La religione è presente in modo molto importante in America ed in particolar modo all’interno del conservatorismo americano; tuttavia il rapporto tra Chiesa e Stato è declinato in modo più sano di come siamo abituati a concepirlo in Italia ed in Europa. La religione esprime in America un potenziale antistatalista, spesso radicale, che invece non possiede in un paese come il nostro nel quale si è semplicemente seduta al tavolo della spartizione politica, come tutte le altre “parti sociali”.

Al di là dei singoli temi, comunque, la vera ragione per la quale Ted Cruz appare oggi la migliore speranza per l’America è che è l’unico candidato rimasto in corsa ad essere determinato a ricondurre il ruolo del governo federale, della Casa Bianca ed anche della Corte Suprema entro l’alveo del costituzionalismo americano tradizionale, contro le prevaricazioni e le invasioni di campo di Washington che hanno contraddistinto l’era Obama. La questione della limitazione del “potere federale” e del ripristino di un più corretto equilibrio dei poteri tra Washington ed i singoli Stati rappresenta oggi una questione “pre-politica” di rilevanza assoluta, perché da essa dipenderà in gran parte il futuro della democrazia americana e la sua capacità di resistere a dinamiche di degenerazione oclocratica.

Peraltro Cruz, al contrario degli aspiranti repubblicani delle ultime tornate, è un candidato possente anche per la sua effettiva capacità di incarnare i valori americani. Figlio di un immigrato fuggito dal comunismo cubano ed arrivato in America con pochi dollari in tasca, sarebbe il primo candidato presidenziale del GOP che non proviene dalla tradizionale America bianca ed anglosassone. 
L’Obama di destra? No, la distanza simbolica non potrebbe essere più grande. In contrasto alla narrazione obamiana dell’emancipazione sociale attraverso l’intervento del governo, il messaggio del texano è quello di un paese in cui chiunque può progredire nella scala sociale grazie alle straordinarie opportunità di un’economia libera – un messaggio di cui oggi c’è disperatamente bisogno.



Il percorso verso la convention è senza dubbio in salita; stante la regola “winner takes all” in vigore nella maggior parte delle primarie residue, Trump ha buone possibilità di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati. Ma Cruz ha ancora a disposizione un percorso per fermarlo, fin dai prossimi giorni, Stato per Stato: vincere in Wisconsin il 5 aprile, mandare Trump sotto il 50% a New York due settimane dopo, fino a quel decisivo 7 giugno in California dove si assegneranno i 172 delegati che probabilmente faranno la differenza.