clandestini

L’immagine di un paio di migliaia di donne e uomini che all’inizio di agosto cercavano di entrare nel tunnel sotto la Manica ha cancellato l’illusione, che nel Regno Unito qualcuno autorevolmente coltivava, che la questione di rifugiati e clandestini fosse una questione del sud molle del Vecchio Continente; una questione ordinaria di ordine pubblico, da risolvere mostrando i muscoli con rudi respingimenti ed evitando le operazioni "search and rescue" di Mare Nostrum, bollate come decisivo fattore di attrazione per disperati e trafficanti di esseri umani. "Loro sono attratti dal nostro standard di vita, ma noi non possiamo accoglierli tutti, quindi dobbiamo respingerli tutti". Elementare, Watson.

Ma cosa accadrebbe (o accadrà) qualora non 1.700, ma 17.000 o 170.000 “immigrati” dovessero provare tutti insieme nelle stesse ore, magari dandosi appuntamento via Whatsapp, ad infrangere le barriere della Gendarmerie e infilarsi nel tunnel arrivando via terra e via mare? Per resistere non basterebbero cani e fili spinati, servirebbero le armi e servirebbe usarle con le note conseguenze.

L’argomento "tornate a casa vostra, questo è il nostro paese e non vi vogliamo" non regge. In bocca a milioni di giovani di tutti i paesi di provenienza c'è una risposta culturalmente e politicamente imparabile: "ma perché, allora, voi siete stati per secoli e fino a qualche decennio fa a casa nostra a prendere la nostra libertà, le nostre ricchezze e persino noi stessi?”. Certo, rappresentare i flussi di questa estate come avanguardia di un’invasione migratoria è un’iperbole. Ma sarebbe prudente e saggio tenerla a mente per evitare di concentrare discussione e politiche sul piano contingente, evocando fili spinati, piattaforme petrolifere, affondamento di barconi e charter per i rimpatri come soluzioni strutturali.

Il mondo cambia, cambiano le tecnologie di comunicazione tra le persone e ci si muove più facilmente. Lasciare una città bombardata o un villaggio preda della siccità non significa abbandonare senza notizie i propri cari, a cui ci si potrà rivolgere facilmente via Skype per rassicurare della propria sorte e continuare a condividere a distanza affetti e progetti di vita. Anche questo conta. Guardiamoci allo specchio. L’anno scorso gli immigrati “regolari” italiani in Gran Bretagna sono aumentati di 57.000 unità. Cercano un lavoro e soddisfazioni priofessionali. Molti tornano, molti no: anche se non sempre sono i benvenuti, aiutano l’economia inglese.

Per le realtà più arretrate l'argomento vale al quadrato: chi scappa da un paese attanagliato dalla povertà rappresenta un investimento certo per il paese di origine. Significa un disoccupato in meno, un questuante in meno per il Governo, a volte anche un oppositore politico in meno. Se sopravvive al viaggio e raggiunge la meta, prima o poi comincerà a mandare ai familiari decine, centinaia o migliaia di euro all’anno, che siano guadagni legali o meno poco conta. Difficile, dunque, chiedere agli stati di origine, anche quando c’è un interlocutore capace, di fare per conto nostro servizio di polizia di frontiera inibendo ai propri concittadini la libertà di movimento senza fornire contropartite adeguate. Lo stesso per quelli di transito. Abbiamo discusso in Europa per mesi sul pull factor rappresentato dei salvataggi in mare, per esorcizzare la potenza dei push factor: la violenza, la fame e la speranza di farcela (razionale o no, poca conta). Decine, centinaia di milioni di donne e uomini che vogliono venire in Europa rischiando di affogare in una stiva, ad asfissiare in un tir, semplicemente perché non hanno nulla da perdere e forse qualcosa da guadagnare. Questa è la scala dei problemi a cui dobbiamo rispondere.

La paura del (molto) diverso da noi, di perdere la nostra identità culturale occidentale forgiata nei secoli più recenti dalla dialettica tra cristianesimo e illuminismo e che negli ultimi decenni ha imparato la lezione della shoah e ha tabuizzato i totalitarismi e la violenza tra gli Stati democratici, la paura che l’islam europeo si organizzi per minare (magari con mezzi democratici) le fondamenta di laicità delle istituzioni, di uguaglianza e libertà delle donne e degli uomini sulle quali vogliamo costruiscano la loro vita anche i nostri figli; queste non sono paure irrazionali. Sono le paure di tutti noi, sono le mie paure. Il problema è l’uso politico che ne facciamo. Le cavalchiamo per esorcizzarle con proclami apodittici e soluzioni pietosamente consolatorie? Perderemo tempo, aggravando i problemi. Il destino di un assedio in queste condizioni sarebbe più facilmente la capitolazione.

Il punto di partenza di una strategia razionale è la dimensione europea. Abbiamo perso tempo perché le forze che oggi deplorano e invocano l’Europa sono le stesse che in nome di un illusorio nazionalismo dell’immigrazione hanno impedito che le istituzioni europee avessero compiti e risorse proprie su questo. Gli accordi di Dublino sono l’emblema di questo tempo perso e la decisione unilaterale della Germania di sospendere Dublino per i rifugiati siriani un segno di leadership europea della cancelliera Merkel. Oggi tanto la Gran Bretagna che l’Ungheria chiedono aiuto a Bruxelles: ha ragione Junker a ribadire che sono inattivi gli stati, non la Commissione, che presentò a maggio un’agenda sull’immigrazione che nel quadro giuridico attuale richiedeva però il via libera dei governi dei paesi membri. Comunque, ora ci si deve muovere trasferendo democraticamente all’Unione in quanto tale competenze e mezzi. L’Europa è la meta, l’Europa è la dimensione per una risposta che cerchi di essere efficace.

Le regole devono essere europee, le identificazioni devono essere europee, i centri per i rifugiati debbono essere europei, la loro collocazione deve essere europea, i rimpatri quando doverosi e possibili pure. Dobbiamo mettere in comune le risorse e definire insieme le regole a cui poi tutti attenersi. Ovvio, ci sono modi più o meno efficaci e civili per far fronte all’emergenza, ma i proclami dei governatori di alcune regioni del nord Italia contro i trasferimenti nei loro territori dei rifugiati sbarcati a Lampedusa saranno un ostacolo in più il governo italiano quando sarà chiamato a negoziare a negoziare con altri paesi membri la condivisione del carico dei richiedenti asilo; tant’è. 

Quello dei rifugiati, richiedenti asilo e profughi, ai quali siamo vincolati giuridicamente a fornire protezione ed assistenza, è un aspetto che riveste carattere umanitario prima di tutto, e sul quale, ricordiamolo, ci sono paesi più poveri e fragili che fanno enormemente di più dell’Europa intera: pensiamo alla Turchia o alla Giordania. Su queste persone si gioca l’immagine del nostro continente come luogo della solidarità e dell’universalizzazione dei diritti dell’uomo.

L’emergenza di questi giorni è durissima, ma non è oggi né può essere domani il fattore di crisi politica, istituzionale ed economica dell’Europa. Se i leader di alcune forze politiche (che magari rivendicano la necessità di scolpire nel marmo dei trattati europei le radici cristiane dell’Unione) hanno intenzione di chiudere le porte dell’Europa a chi scappa dalla Siria o dall'Eritrea, denunciando le convenzioni internazionali sui rifugiati, lo dicano esplicitamente ed abbiano la forza poi di essere conseguenti. Altrimenti è bene che si mettano con noialtri a cercare soluzioni efficaci che possano rassicurare gli europei, specie delle fasce più deboli, che l’Europa è forte e ricca abbastanza per fare più di quanto faccia la Giordania senza che questo minacci il benessere di nessuno.

Distinguere tra richiedenti asilo e migranti economici non è così facile, ma serve ad orientare le politiche. Arginare il flusso dei migranti richiede una strategia duratura, complessa e costosa. Non è un paradosso: se non ci sono vie legali, tutti si dedicheranno a quelle illegali. So che molti pensano più efficace la soluzione contraria, ma avere quote europee non risibili di immigrazione regolare che prescindano dalla congiuntura è un modo per togliere un po’ di mercato ai trafficanti e per convincere molti ad aspettare un ingresso legittimo, anche a tempo, per cercare fortuna. Questo può consentire, entro parametri ragionevoli, anche di orientare i flussi secondo le esigenze economiche e sociali. Su questa base sarà relativamente più facile cercare la cooperazione degli stati di provenienza (e di transito) ai quali chiediamo di investire uomini e mezzi per proteggerci dalle partenze.

Anche gli accordi commerciali e di cooperazione economica con i paesi provenienza dei maggiori flussi vanno intensificati allo stesso fine. Si potrebbe proseguire, ma una cosa deve esserci chiara: per calmierare gli arrivi dei migranti e rendere credibili le misure di polizia per regolamentare i flussi, bisogna investire risorse innanzitutto pubbliche, e questo il contribuente - il taxpayer - deve saperlo. Come deve sapere che l’alternativa sarebbe di usare le stesse risorse per approntare e difendere la fortezza Europa con esiti comunque non più positivi sulla crescita economica ed il benessere europeo e probabilmente suo personale.