No trivelle

Da qualche settimana a questa parte non è quasi possibile affacciarsi sui social network senza imbattersi in prese di posizione sul referendum del 17 aprile. Pare che amici, parenti e conoscenti, finora non precisamente addentro alle questioni dell’approvvigionamento energetico, improvvisamente abbiano deciso tutti di schierarsi da una parte o dall'altra. Nella maggior parte dei casi la parte è quella del No ai trivellamenti, ovvero del Sì al referendum.

Il quesito referendario, tuttavia, agisce in un ambito ben più ristretto dei generici “trivellamenti” che tante ironie stanno provocando: riguarda infatti l'abrogazione del comma 17, terzo periodo, dell'articolo 6 del dlgs n. 152 del 2006, limitatamente alle parole: "Per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale".
Cosa vuol dire?

Attualmente l'articolo 6 vieta la ricerca, la prospezione e la coltivazione degli idrocarburi nelle aree marine protette e in tutta la fascia costiera posta entro 12 miglia (circa 22 km) dalla linea di costa, fatte salve le concessioni e le autorizzazioni già attive, che rimarrebbero tali fino alla fine della vita utile del giacimento. Il referendum non riuscirebbe, quindi, a vietare di estrarre idrocarburi nel Mediterraneo. La vittoria del Sì comporterebbe però la chiusura degli impianti attualmente esistenti che si trovano nella zona "di rispetto" dove è già stata vietata la costruzione di nuovi impianti.

A chiudere, alla scadenza delle concessioni attuali, sarebbero solo 21 piattaforme di produzione di gas, su 106 esistenti. Le altre sono abbastanza lontane dalla costa per continuare a produrre. Lontano dalla costa si possono anche cercare nuovi giacimenti e costruire nuovi pozzi: è consentito dalla legge vigente, che il referendum non farà niente per cambiare.

Da questi pozzi, come prima accennato, estraiamo essenzialmente gas naturale: nel 2014 abbiamo estratto dai nostri mari il 7,8% del gas e l'1,3% del petrolio che abbiamo consumato. Sono percentuali molto basse, siamo un paese che dipende quasi totalmente dall'estero per i propri fabbisogni energetici. Concentriamoci quindi sul gas, visto che è il vero protagonista di questa faccenda.

Nel 2014 abbiamo usato 50,7 milioni di TEP (tonnellate equivalenti di petrolio) di gas naturale (fonte: Bilancio Energetico Nazionale 2014). L'11,5% di questa quantità è stato prodotto in Italia (il 7,8% in mare); il restante 88,5% l'abbiamo comprato dall'estero. Il gas in Italia viene importato in due modi: tramite gasdotti e tramite navi metaniere. Il sistema dei gasdotti ha il difetto di essere poco flessibile: sono opere mastodontiche che collegano ad un produttore. Se un tubo va da A a B, insomma, non si può spostare o deviare nel caso cambino le condizioni della fornitura. Dopo aver speso cifre ingentissime per realizzare l'opera, vengono stipulati contratti di tipo take or pay, che vincolano a comprare un minimo di gas da quel produttore per un certo numero di anni. Per non rischiare di rimanere a secco, ci siamo adoperati per essere collegati con vari fornitori: la Russia, il Nord Europa, l'Algeria e la Libia. Tuttavia, la Strategia Energetica Nazionale ha deciso di spingere anche verso i rigassificatori.

Presso questi impianti arriva il gas naturale liquefatto (GNL) trasportato dalle navi metaniere, e viene riportato allo stato gassoso per essere poi immesso in rete. I rigassificatori sono strategici, perché permettono di acquistare gas da qualunque produttore abbia navi metaniere disponibili a portarlo a destinazione, senza grossi vincoli. Attualmente, sul territorio nazionale, ce ne sono tre in funzione, ed è già stata approvata la realizzazione di altri 3 impianti – spesso osteggiati, ironia della sorte, dagli stessi gruppi di pressione che non vogliono nemmeno le trivelle.

In alcune giornate invernali particolarmente fredde, il nostro Paese arriva addirittura a consumare più gas di quanto riesce a produrre e importare: in quei casi dobbiamo ricorrere all'equivalente energetico dei soldi sotto al materasso. Abbiamo, infatti, delle riserve, dei depositi di gas sottoterra in vecchi giacimenti ormai vuoti. In estate e primavera pompiamo il gas nuovamente giù, nel giacimento, e lo tiriamo fuori all'occorrenza, quando fa freddo e le caldaie consumano tanto.

Ma per cosa lo usiamo, tutto questo gas? Sicuramente una grossa parte è destinata ai consumi domestici noti a tutti (acqua calda, termosifoni, cucina), ma ciò che, a quanto pare, non viene adeguatamente percepito dall'opinione pubblica è il fatto che una grossa porzione del gas che l’Italia consuma viene usata per produrre energia elettrica. Nel 2013 il 33,7% dell'energia elettrica nel nostro Paese è stato prodotto bruciando gas naturale (fonte GSE). Questo numero è un po' sceso rispetto al 39,1% del 2012, anche a causa della crisi economica e di inverni piuttosto miti, ma è comunque una quota rilevante. In sostanza, un terzo dell'energia elettrica che usiamo, anche quella che tiene accesi i nostri computer e ricarica i nostri smartphone da cui scriviamo accorati appelli "contro le trivelle", viene dal gas.

Grafico Anna 611

La quantità di gas necessaria a produrre energia è stata, nel 2014, pari a circa il 30% di tutto quello che abbiamo utilizzato, inoltre ne abbiamo usato il 24% per l'industria e il 42% per usi civili (fonte: il BEN 2014 già citato). Da questi dati è facile capire che siamo totalmente dipendenti dal gas: attualmente non possiamo farne a meno. È vero, se con il referendum dovesse vincere il Sì noi non ci accorgeremmo di niente. Nelle nostre case continuerebbe a funzionare tutto. Quella piccola fettina di gas che viene prodotta in quei giacimenti verrebbe semplicemente comprata all'estero.

Ci si augura, naturalmente, che non provenga da luoghi dove è praticato il fracking, attività estrattiva peraltro vietata in tutta Italia, che può risultare altamente inquinante, molto peggiore delle nostre piattaforme, né da Paesi poveri dove i lavoratori vengono sfruttati e non ci sono leggi sulla salvaguardia dell'ambiente o limiti alle emissioni. Anche se questo dovesse essere il caso, comunque, che importerebbe? L'onore delle nostre inviolate coste sarebbe salvo.

L'impressione è che questo referendum, pur avendo un'idea di fondo ambientalista difficile da condannare, non riesca ad avere visione di insieme, ma sia intriso di sindrome NIMBY. Estrarre petrolio e gas è un'attività inquinante, è vero, ma l'inquinamento locale che si può verificare attorno agli impianti di estrazione non è niente rispetto al danno ben più grande che infliggiamo all'ambiente quando usiamo idrocarburi fossili. Ogni volta che bruciamo petrolio, gas naturale fossile o carbone fossile immettiamo in atmosfera sostanze climalteranti, responsabili, insieme ad altri fattori, del riscaldamento globale. Di fronte ai rischi e alle sfide del cambiamento climatico, il possibile inquinamento locale attorno a una piattaforma petrolifera è cosa di ben poco conto.

Che votiamo sì o no al referendum, non cambierà niente su scala globale. Col Sì gli impianti chiuderanno, ci sarà un danno economico per gli investitori, qualcuno perderà il lavoro prima del tempo. Col No ci sarà – forse - un po' di inquinamento in più nel Mediterraneo, roba di poco conto.

Se vogliamo davvero cambiare qualcosa, se vogliamo davvero essere amici dell'ambiente dovremmo piuttosto riflettere sui numeri elencati in questo articolo. Il 42% del gas è usato per usi civili, il 30% per produrre energia elettrica (di cui circa il 40% finisce nelle nostre case). Sappiamo bene che quel 42% di “usi civili” è quasi tutto riscaldamento. Si cucina, si scalda l'acqua per la doccia, ma è il riscaldamento che ci fa tremare quando arriva la bolletta del gas a febbraio.

Se davvero vogliamo cambiare le cose, liberarci dell’inquinamento nel Mediterraneo e, cosa molto più importante, ridurre le emissioni di gas serra, allora possiamo cominciare ad attuare dei comportamenti di risparmio energetico e consumo consapevole tutti i giorni, nel quotidiano. Fare in modo di aver bisogno di sempre meno gas e petrolio ci può portare a chiudere quei pozzi che tanto ci crucciano, rendendoli economicamente svantaggiosi, e anche – aspetto certamente non da buttar via – a risparmiare qualcosa sulle bollette.

A livello politico, forse servirebbe investire qualcosa in più nella ricerca scientifica per l’efficienza energetica, anziché inseguire demagogicamente questa o quella battaglia di principio. Questo però non accadrà domani, né il 17 aprile, e non basterà fare una crocetta su un foglio, o pubblicare qualche meme autoassolutorio, ma servirà un impegno serio, strategico e prolungato.