logo editoriale“Immaginiamo un Senato non elettivo, senza indennità, 150 persone, 108 sindaci dei comuni capoluogo, 21 presidenti di regione e 21 esponenti della società civile che vengono temporaneamente cooptati dal Presidente della Repubblica per un mandato”. Non è granché quel che sappiamo della riforma del Senato che avrebbe in testa Matteo Renzi, ma da quel poco che sappiamo temiamo che la cosa non stia in piedi.

Non sta in piedi perché per più dei due terzi dell’assemblea verrebbe soppresso il suffragio universale, dato che i sindaci dei capoluoghi di provincia vengono eletti da un quarto del corpo elettorale nazionale. Non sta in piedi perché non è immaginabile che il Presidente della Repubblica scelga personalmente 21 persone che poi contribuiranno ad eleggere proprio il Presidente della Repubblica. Non sta in piedi perché, a parte alcune vaghe indicazioni sul fatto che la nuova assemblea non sovrapporrà le sue funzioni a quelle della Camera – “non vota il bilancio, non da’ la fiducia ma concorre all’elezione del Presidente della Repubblica e dei rappresentanti europei” – del nuovo Senato non si conoscono le competenze e le attribuzioni. Ed è la composizione di un organismo che deve adattarsi alle sue competenze, non il contrario. Ma questa lacuna non meraviglia più di tanto.

Matteo Renzi sa bene che non è sulla composizione del “Senato delle Autonomie” che si giocherà la vera partita, almeno per il momento, ma sul modello di organizzazione delle istituzioni locali e federali che questa assemblea, da chiunque sia composta, andrà a rappresentare. Ovvero sul titolo V della Costituzione e sul superamento del federalismo all’italiana, preteso dal centrosinistra nel 2001 ma sul quale si sono comodamente sdraiati un po’ tutti, che attribuisce alle regioni il potere di spendere senza dar loro al tempo stesso la responsabilità di tassare. Ma dato che la riforma del titolo V della Costituzione non può che precedere l'istituzione del "Senato delle Autonomie", è su questo terreno che Matteo Renzi corre i rischi maggiori.

Perché è su quel punto, e sulle sue ricadute nella composizione della seconda camera, qualsiasi siano le “suggestioni” raccontate nel frattempo, che i novelli “costituzionalisti” in forza ai partiti faranno valere il peso dei veti incrociati. Consapevoli che comunque anche la partita della governabilità, sulla quale il segretario del PD si gioca il futuro suo personale e la credibilità del nostro paese di fronte ai mercati finanziari, passa più dal superamento del bicameralismo perfetto, e quindi dal Senato, che dalla riforma della legge elettorale della Camera dei Deputati.

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