Julian Assange grande

La vicenda di Assange dimostra che l’estrema polarizzazione del dibattito pubblico rende astratto, oltre che manicheo, il confronto delle opinioni. Fare di Assange l’eroe della libera informazione, così come il campione dello spionaggio e del tradimento non aiuta a capirne il fenomeno, di cui dovrebbero piuttosto essere indagate le zone d'ombra.

La sua storia, anziché essere costretta nello spazio angusto dell’alternativa “buono-cattivo”, apre spazi interpretativi diversi e più liberi, che aiutano a dare giudizi più articolati e sereni sulla sua impresa, che è stata certo di successo in termini “comunicazionali”, cioè di straordinaria e virale risonanza.

La mancata - per quanto momentanea - estradizione negli Stati Uniti è una buona notizia, ma affermarlo non significa dipingere Assange per quello che non è: un martire della libera informazione e del libero pensiero.

Quel che ha effettivamente portato a termine, nella sua attività di blogging e hackeraggio, è stato rovesciare sul mondo una quantità impressionante di dati e materiali, per così dire, grezzi: più che un giornalista, dunque, è stata una fonte, anzi un aggregatore di fonti. Il giornalismo, inteso come volontà di fare corretta informazione, non è però raccogliere e diffondere informazioni e dati “originali” con l’illusione che basti questo a illuminare la verità di una storia.

Il rischio - che infine si è, almeno in parte, concretizzato - è che tali dati e documenti, spogli di una qualsivoglia analisi critica e per giunta riservati e classificati, siano utilizzati in maniera ideologica e strumentale, con il solo risultato di confermare bias e distorsioni cognitive.

Passando oltre l'inevitabile contraddizione di un soggetto che nella sua lotta per la trasparenza istituzionale ha agito in maniera del tutto occulta, suscita diffidenza il fatto che da Wikileaks non siano mai state condotte vere operazioni d’attacco ai danni di paesi autoritari; cosa che Assange ha sempre giustificato per ragioni “tecniche” (a partire da problemi di penetrazione linguistica), ma che autorizza il sospetto su un pregiudizio di fondo: il suo, nei fatti, è stato un attacco frontale e a senso unico verso l’ordine internazionale occidentale.

Potrebbe non essere stato lo scopo sociale di Wikileaks, ma rimane il fatto che si è trattato di una leva politica potentissima contro gli Usa e i suoi alleati, non contro i suoi nemici.

Qualcuno ricorderà lo scandalo “emailgate” che colpì Hillary Clinton durante le elezioni del 2016, e che sarebbe stato fatto emergere con la collaborazione dell'intelligence russa, stando al rapporto del procuratore Robert Mueller. L'anno successivo si ripeté qualcosa di simile quando, a due giorni dai ballottaggi finali tra Macron e Le Pen, vennero rilasciate decine di migliaia di leaks che screditavano pesantemente lo staff del primo. In quel caso l'effetto sul voto fu decisamente più contenuto per via del silenzio elettorale, ma certo fu una coincidenza curiosa, visto che per la seconda volta venne avvantaggiato un candidato favorevole al Cremlino.

Del resto, se vediamo quali sono gli esecutivi più critici nei confronti dell’arresto e della possibile estradizione di Assange, è abbastanza semplice capire a chi il suo lavoro, intenzionalmente o no, sia servito.

La sua lotta per la verità e contro la menzogna come causa di violenza e guerra ha lasciato immuni i Paesi più illiberali. Il lavoro di Assange è stato invece utilissimo a dimostrare che la guerra in tutto il mondo è un prodotto Usa. Assange poteva davvero credere di lottare per un mondo dove l'informazione fosse totalmente libera, ma che ne fosse consapevole o meno ha finito per trasformarsi in uno strumento di chi mira ad erodere la libertà un pezzo dopo l'altro.

Non si può poi non considerare che i segreti di stato esistono, da sempre e per tutti i paesi, e che violarli è un reato: rendere ad esempio pubblici i nomi di chi in Afghanistan stava collaborando con le autorità occidentali è anch’esso un problema di libertà, oltre che di sicurezza e incolumità.
I segreti di stato non sono sempre il fondo inconfessabile di un potere occulto, ma anche un modo in cui le democrazie si tutelano.
Il parallelismo tra Assange e Navalny, ricorrente dopo la morte di quest'ultimo, non sta in piedi. Navalny ha vissuto da perseguitato, si è consegnato al suo persecutore ed è morto da martire in una sfida a un potere autocratico.

Assange ha al contrario rivendicato una sorta di immunità per la sua attività, anche se illegale, e ha la certezza di essere giudicato all’interno di un sistema in cui vige la separazione dei poteri. Assange non ha lottato per i fini per cui Navalny è morto, non usando neppure gli stessi mezzi di militanza civile e di disobbedienza nonviolenta.

Assange è forse il giornalista più difeso, oltre che dalla sua schiera di avvocati, anche da autorevoli giornali internazionali, da televisioni, e da una buona fetta dell'opinione pubblica occidentale, che fino alla morte di Navalny si è interessata della sua causa molto di più che di quella del più importante dissidente russo.

Wikileaks è stata una esperienza storicamente rilevante e forse fondamentale per capire, più che i segreti del deep state americano, il funzionamento e le fragilità del sistema della comunicazione globale. Bisognerebbe parlare di Assange in questa prospettiva storica, andando oltre la santificazione e la demonizzazione del personaggio.