shiraz grande

C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi che sta meritoriamente riempendo le sale, si può amare anche senza assegnargli arbitrariamente pretese che non ha. È un film dal registro comico e didascalico miracolosamente non viziato di didascalismo, credibile e non stucchevole nell'inevitabile – per un film appunto perlopiù comico e didascalico – stereotipizzazione dei protagonisti.

Il registro comico, peraltro, può anche esser visto come l'attraente teca all'interno della quale vengono esibite sporadiche ma preziosissime fughe nella dimensione drammatica – una sessione di danza come estetizzazione non patetica di un grave episodio di violenza domestica, coi lividi e i rivoli di sangue suggeriti e poi rimossi, perché nella loro assenza finta facciano più male; un elegantissimo e strategicamente astutissimo atto di terrorismo antipatriarcale e probabilmente anche anticollaborazionista; la tessera elettorale come passaporto per la libertà assai più efficace di una lettera d'amore; l'uomo violento solo e impotente al cospetto di una collettività di donne finalmente consapevoli di sé stesse; (infine, più nel tragicomico che nel drammatico, “cortellesianamente”) una sequenza nella quale i due protagonisti di un amore che avrebbe potuto essere e non è stato si fissano col volto inebetito e il sorriso macchiato di cioccolato militare.

Ieri ricorreva l'anniversario del bacio di Shiraz, la foto simbolo della ribellione antikhomeinista tuttora in corso in Iran; dopo l'abuso della nozione di “patriarcato”, individuato nel linguaggio nei consumi culturali di ieri e di oggi nella predilezione femminile per il rosa e insomma ovunque, perfino nelle strisce depilatorie, il “patriarcato solido” perché istituzionalizzato all'interno di una teocrazia islamista – o, in termini e ordini di grandezza diversi, nell'Italia primo-novecentesca, per restare al film – è una parete di realtà sulla quale si abbattono la terza e la quarta ondata di femminismo, ambedue in rapporto antagonistico e non di propedeuticità con la prima (quella suffragista di cui si occupa Cortellesi) e la seconda, stanti la demenzialità paranoica e vittimista che contraddistingue i femminismi di fattura più recente, il maccartismo e la criminalizzazione contro-sessista del maschio in quanto tale (non maschio e basta, maschio più altre qualificazioni di natura sempre sessual-razziale e mai socioeconomica: è il post-materialismo bellezza…), nel paternalismo sussiegoso esercitato sulle donne renitenti alla leva sommariamente squalificate come serve sciocche del patriarcato, nell’equiparazione abusiva di situazioni d'oppressione del tutto diverse e nella sovraordinazione della causa terzomondista a quella universalmente femminista, nella speciosa decostruzione del linguaggio e nella riformulazione costruttivista dello stesso, nel cyber-attivismo inteso come comoda e conformistica forma di virtue signalling.

Così, da ultimo, più che in giornaliste scrittrici attiviste etc. eterogeneamente femministe ci si imbatte in un esercito di… Barbie Femministe – per citare l'altro caso cinematografico “di genere” dell'anno – e cioè perlopiù content creator che nei loro reel e nelle loro slide e in generale nelle loro furenti invettive contro il patriarcato usano tutte le stesse parole-chiave, le stesse lenti interpretative, la stessa cifra per dir così francofortese e talvolta un po' antiliberale nella valutazione dei consumi culturali, la stessa arroganza sottendente lo stesso dogma d'infallibilità mutuato direttamente dalla dottrina cattolica, infallibilità nella fattispecie accessibile non a un solo cardinale ogni morte di Papa ma a qualunque utente munita di connessione sulla quale sia calata la Pentecoste del wokismo.

Eppure guardando il blockbuster di Greta Gerwin abbiamo appreso che la vera evoluzione di Barbie Stereotipo (e delle altre Barbie… comunque stereotipate anche quando altolocate) è la donna consapevole della propria complessità e vulnerabilità e dunque fallibilità, le prime a proprio agio in un'identità monista e la seconda consapevole della propria identità pluralista – e dei conflitti che ne conseguono: essere elettrice, mamma, agente economico indipendente etc. comporta trade off ed errori, sacrifici e rischi, perfino dissonanze cognitive. In Barbie si parla suggestivamente di… “de-programmazione”, non di ri-programmazione: qualunque “programmazione” – e cioè, per esser più chiari, spersonalizzazione – inflitta dall’esterno (tu sei una bambola e null’altro; tu sei la donna di casa e null’altro) o auto-inflitta per pigrizia intellettuale narcisismo o conformismo (sono un/una attivista, ho appena ultimato il download della mia identità e della mia visione del mondo dogmatica e logicamente coerentissima) è una bestemmia al libero arbitrio.

Ecco, forse C’è ancora Domani, Barbie e l’iconico (seppur già dimenticato: troppo poco woke, come sottolineò con amarezza Concita De Gregorio) bacio di Shiraz sono stati e sono così impattanti perché sono tre diverse ma simili celebrazioni del libero arbitrio senza l’omissione dei suoi costi materiali e psicologici.