Where is Sombath? Da oltre 870 giorni la domanda viene posta da un numero sempre crescente di cittadini, ONG, parlamentari, governi; negli incontri bilaterali, multilaterali, internazionali; nelle strade di Manila, Taipei, Copacabana, Praga, Addis Abeba, Kathmandu, Potsdam; in Sri Lanka, Filippine, Malaysia, Indonesia, Thailandia, Bangladesh, Pakistan e Nepal; arriva dalla Svizzera, Australia e Stati Uniti d'America, prima con Hillary Clinton poi con John Kerry; dal Canada e dall'Unione Europea, a più riprese, e da alcuni dei suoi Stati membri; lo chiedono Human Rights Watch, International Federation for Human Rights, ASEAN Parliamentarians for Human Rights, Amnesty International, Ramon Magsaysay Foundation... l'elenco sarebbe ancora lungo, fermiamoci qui. 

sombath

È invece rilevante l'esasperante accidia con cui viene colta la richiesta "Dov'è Sombath? Risponda per favore", dal momento che coloro a cui viene rivolta reagiscono come Bartleby, lo scrivano di Melville, con il suo «I would prefer not to», "Preferirei di no". È così, dalla sera del 15 dicembre 2012, da quando Sombath Somphone stava tornando a casa dal lavoro con la sua jeep. Ma a casa non ci è mai arrivato.

Ma chi è Sombath Somphone? Vincitore, nel 2005, del Ramon Magsaysay Award, l'equivalente asiatico del Premio Nobel per la Pace, nella categoria Community Leadership, Sombath Somphone è uno dei più noti rappresentanti della società civile laotiana, che se non si conosce il Paese sembra poca cosa. La Repubblica democratica popolare del Laos è, insieme a Cina, Cuba, Vietnam e Corea del Nord, uno degli ultimi Stati comunisti, risultato dalla dissoluzione dell'Indocina, dalla guerra del Viet Nam e, infine, dal colpo di Stato del Pathet Lao, appunto il partito unico che, dal 1975, regna indisturbato su uno dei più poveri Paesi del pianeta.

Il Laos è piccolo - poco meno di 7 milioni di abitanti - e disturba poco. Anzi, per la diplomazia internazionale si tratta di un Paese tutto sommato irrilevante, per quanto rimanga uno dei principali produttori di oppio. È un Paese che sopravvive, letteralmente, solo grazie agli aiuti internazionali. Ma il Laos è anche un paese vincente, basta solo intendersi su quale lato della classifica guardare.

Sulla libertà di stampa è precipitato al 171° posto su 180 Paesi, punto più basso degli ultimi dieci anni (fonte Reporter senza frontiere rsf.org - 2015 World Press Freedom Index); dopo ci sono solo Somalia, Iran, Sudan, Vietnam, Cina, Siria, Turkmenistan, Corea del Nord ed Eritrea. Anche per Freedom House, sempre sulla libertà di stampa, il Paese guadagna un buon punteggio: 84 su 100 (dove, ça va sans dire, 100 rappresenta il peggio - Freedom of the Press 2015).
Per Transparency International e il suo indice di percezione della corruzione, il Laos si piazza bene: un bel 145 su 174.

Sulle libertà religiose non va tanto meglio; sia per il Pew Research Center sia per l'USCIRF (U.S. Commission on International Religious Freedom - Annual Report 2015) anche su questo tema si posiziona tra i paesi più preoccupanti. Idem sulle libertà economiche. Secondo The Heritage Foundation è 150° su 178. Ma sono tutti i parametri di Freedom House (diritti politici e libertà civili visti nel loro complesso) ad assicurare la palma al Laos, con un giudizio finale inappellabile: Paese NON libero, cosa che lo include di diritto nel rapporto Freedom House (del 2011) «Il Peggio del peggio: le società più repressive del mondo». E sono solo venti i Paesi considerati.

Insomma, la libertà d'espressione è limitata addirittura dal Codice penale, con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale (da chi?); i media sono controllati dal regime; l'autocensura è diventata una forma di difesa; chi può e riesce scappa all'estero; le minoranze religiose, soprattutto cristiane protestanti, vengono ancora represse e perseguitate; gli stranieri che per sventura vengono arrestati, o vengono rispediti nel proprio paese dove si suppone non faranno una bella fine (è il caso di nove giovani rifugiati nordcoreani, in virtù di un accordo tra i due Paesi) o vengono dimenticati in carcere; chi manifesta dissenso viene arrestato e nella maggior parte dei casi scompare, inghiottito nel nulla. Infatti, altra peculiarità di questo sconosciuto regime sono le sparizioni forzate, un fenomeno riconosciuto quale crimine contro l'umanità; questo è un Paese dove esistono ancora i desaparecidos. Ma chi li reclama?

Qui torniamo al protagonista, suo malgrado, della nostra storia. Sombath Somphone, nato e cresciuto in una zona rurale del Laos, studia all'estero e dopo una laurea in educazione e un Master in Agricoltura, quando migliaia di persone fuggono dal Laos dopo la rivoluzione del 1975, torna a lavorare nel "nuovo" Paese.

Nel 1996 fonda, evidentemente con il permesso del governo, il PADETC (Participatory Development Training Centre), una ONG per l'educazione e lo sviluppo sostenibile, per molti anni l'unica organizzazione non governativa del genere in Laos. Negli anni diventa, come dicevamo, una celebrità in tutta l'area del sud-est asiatico per l'impegno e la passione che infonde nel suo lavoro. Nell'ottobre del 2012 è co-presidente del comitato organizzatore dell'AEPF (Asia-Europe People's Forum) che si tiene a Vientiane, capitale del Laos. Somphone organizza il forum in accordo con il governo, è ovvio, ma una serie di "incidenti" potrebbe aver creato delle frizioni. Tra tutti una dichiarazione, di cui Somphone è co-autore, che riassume le consultazioni tenute prima del Forum e che in particolare sottolinea quanto la crescita economica non sia sufficiente a risolvere tutti i problemi del Laos, una posizione in contrasto con l'Obiettivo 1 dei leader del Paese, appunto una forte crescita economica. Inutile dire che lo Statement non viene distribuito. Inoltre, il problema delle terre confiscate agli agricoltori, a vantaggio soprattutto di società cinesi e vietnamite, e la spoliazione delle risorse naturali, è sempre più sentito e si fa fatica a contenere le lamentele che rischiano di esplodere in quel contesto.

La sera del 15 dicembre 2012, dicevamo, Sombath Somphone non arriva a casa, ma non è proprio scomparso nel nulla. La famiglia riesce a riprendere con un cellulare le immagini di una telecamera a circuito chiuso, in cui si vede chiaramente Sombath fermato dalla polizia, fatto scendere dall'auto e caricato su un pickup.
Quelle le ultime immagini di Sombath, ma alla domanda Where is Sombath? il regime risponde... non so. Parliamo di un regime – e si tratta in realtà di una élite composta da poche famiglie che hanno in mano i fili del potere – che ha un controllo totale del Paese, prigioni e campi di detenzione inclusi. La risposta "non so", "indaghiamo", "è complicato" non è semplicemente credibile. E non si capisce come possa essere accettata.

Desmond Tutu ha scritto direttamente al primo ministro, ma lui, premio Nobel per la Pace, non ha proprio ricevuto alcuna risposta. Nonostante tutto, Somphone è divenuto un simbolo e la domanda Where is Sombath? continua a disturbare il sonno del regime. Non è ora di mollare! Se all'interno del Paese è sconsigliato parlare di Sombath e vengono fatte circolare calunnie sul suo conto per gettare un'ombra pesante sulla sua reputazione, all'estero la campagna #WhereisSombath? continua a crescere, come una marea, lenta ma che acquista potenza giorno dopo giorno.

E probabilmente il regime non si aspettava una mobilitazione internazionale su questo caso, né pensava che, a oltre due anni dalla sparizione, l'attenzione non scemasse, anzi. È lecito supporre, invece, che sperasse che la scomparsa di Somphone venisse trattata al pari delle troppe altre che si verificano con drammatica costanza. Le sparizioni forzate in Laos sono note alla comunità internazionale, ma al di là di formali quanto poco pressanti richieste di spiegazioni, fatte più per dovere che per convinzione, i desaparecidos laotiani sono ancora tali.

I Paesi donatori sono un sostegno assolutamente essenziale per il Governo laotiano. E soprattutto questi Paesi – per quanto riguarda l'Italia, l'Unione europea nel suo insieme – devono essere consapevoli delle serie violazioni dei diritti umani e attuare le misure necessarie per farvi fronte. Il fatto di non esigere dalle autorità laotiane di trattare le questioni relative ai diritti fondamentali, equivale a essere complici di tali gravi infrazioni. Sulla carta il Laos compie degli sforzi ma, appunto, sulla carta; nei fatti si impegna a firmare e ratificare le convenzioni internazionali (vedi quella proprio sulle sparizioni forzate), o raccoglie le raccomandazioni dei Paesi terzi, che però disattende sistematicamente con una impudenza sconcertante. Ma lo sconcerto deriva più dalle reazioni anodine della comunità internazionale che dall'atteggiamento levantino del Laos che, bisogna ammettere, dal punto di vista del regime risulta vincente. Non proprio un segnale incoraggiante.

E vista la gravità della situazione dei diritti fondamentali nel Paese, non è più sufficiente accontentarsi che la parola "diritti umani" venga menzionata – nei trattati, nelle convenzioni, nella Costituzione o nella legislazione nazionale. I diritti umani esistono se sono applicati, cosa molto lontana dall'essere il caso del Laos. Ecco perché il caso di Sombath Somphone, emblema di tutti i desaparecidos del Laos, può e deve essere usato come un grimaldello per ottenere significativi passi avanti sulla via della democrazia e della riconciliazione.

La comunità internazionale lascerà, come il principale con Bartleby, morire di inedia il Paese o pretenderà una risposta alla domanda Where is Sombath?