Quello di Domenico Mennitti, scomparso domenica mattina a 75 anni, è stato un itinerario sostanzialmente anticipatore nel panorama politico-culturale italiano degli ultimi quattro decenni. Nato e formatosi politicamente nel postfascismo, ha accompagnato le sue prime frequentazioni della politica sotto la lezione del suo conterraneo pugliese Ernesto De Marzio, il parlamentare missino che nei primi anni Sessanta, al di là e oltre la nostalgia, il reducismo e i tratti di estremismo che contraddistinguevano parte del suo partito, seppe dar vita al Centro di vita italiana e agli Incontri romani della cultura. Due iniziative in cui coinvolse e mise insieme polifonicamente il meglio della cultura che in quegli anni di triste dopoguerra si distingueva dall’egemonia neo-marxista e azionista: dai filosofi Gabriel Marcel e Gustav Thibon sino a Ernst Jünger e James Burham, da John Dos Passos e Vintila Horia a Odisseo Elitis e Michel Déon, sino  agli italiani Diego Fabbri e Giorgio Del Vecchio.

Domenico-Mennitti

Il giovane Domenico Mennitti, che del figlio di De Marzio, Alfredo, era anche compagno di studi e di militanza nella Giovane Italia, respirò quel clima e l’idea di impegnarsi in politica non tanto per mera testimonianza quanto per riaprire scenari sul primato della forza delle idee. Anche per questo, eletto deputato a quarant’anni, nel 1979, venne segnalato da qualche giornalista come uno della nuova covata dei “quarantenni” missini, gollisti e chiracchiani, come vennero definiti per distinguerli dagli almirantiani vecchio stampo.

Mimmo, tanto per dire, non ci mise troppo tempo a rompere vecchi muri di incomprensione e a stringere rapporti, che diventarono anche di consuetudine e d’amicizia, con l’allora neoeletto deputato radicale Leonardo Sciascia e con lo stesso Marco Pannella. Il proposito che lo animava era quello di rimettere in moto i voti di due milioni di italiani, e di mettere in archivio l’immagine andreottiana dei “voti in frigorifero” al servizio, all’occorrenza, degli equilibri democristiani.

Pochi sanno che uno dei suoi autori e scrittori di riferimento, non solo in quel periodo, era Giuseppe Berto, l’ex reduce delle guerre in camicia nera e poi prigioniero “non cooperatore” a Hereford, che nel 1971 – dopo una serie di grandi successi come Il male oscuro o Anonimo veneziano – pubblicava Modesta proposta per prevenire, un pamphlet politico nel quale, senza torcicolli e guardando al futuro, denunciava la partitocrazia, il collasso del Parlamento, la mancanza di una riforma modernizzatrice della burocrazia italiana e del rinnovamento generazionale della classe dirigente.

Mennitti arrivò agli anni Ottanta presagendo che alcuni muri stavano per cadere e prefigurando un Msi che si aprisse alla logica delle alleanze, un’ipotesi che si stava cominciando a intravvedere dopo gli spiragli di apertura dell’allora premier socialista Bettino Craxi. E nel 1985, attorno alla rivista Proposta, si riaggregano molti nomi della diaspora missina, figure che si erano distaccate negli anni da quell’area per muoversi in mare aperto nel circuito giornalistico, da Enzo Erra a Giano Accame, oltre ad alcuni "irregolari" interni, come Tomaso Staiti e Beppe Niccolai. Figure con le quali Mennitti animava dibattiti sulla necessità, anche per i missini, di partecipare da protagonisti al possibile rinnovamento riformista delle nostre istituzioni, oppure nella prospettiva di delineare una destra non xenofoba e aperta, semmai, all’integrazione degli immigrati.

La rivista, che sopravvisse fino al 1991, aprì il mondo politico-culturale missino al dialogo con le altre forze politiche, dai socialisti craxiani ai liberali, dai radicali ai cattolici più avveduti. Nel 1987, alla notizia delle prossime dimissioni di Almirante, Mennitti si candida alla segreteria del partito. Non vince, segretario diventa Gianfranco Fini, attestato allora su posizioni di contuinismo, e tre anni dopo Mennitti rilancia, portando alla segreteria Pino Rauti e divenendone vicesegretario. Un anno e mezzo dopo, Rauti si dimette e Mennitti ci riprova in Comitato centrale. Viene nuovamente sconfitto da Fini per una manciata di voti e il Msi si riattesta su posizioni di retroguardia. 

Lui, qualche mese dopo, si dimette dal partito e – caso più unico che raro per la politica italiana – anche da parlamentare a due mesi dal vitalizio. Si rimette a fare il giornalista, andando a Napoli a dirigere lo storico quotidiano Roma, che l’anno prima era stato riaperto e rilanciato con la direzione di Ottorino Gurgo. Realizza un bel giornale, arioso e trasversale, con tante e qualificate collaborazioni. Poi, nel 1992, Mennitti viene coinvolto nei seminari politici che Paolo Del Debbio organizzava per Berlusconi e i suoi manager. E fu attraverso questi contatti che convinse il Cavaliere a dar vita al Polo della libertà e a coalizzarsi con il Msi-An e con la Lega. Divenne, pur non candidandosi - e avrebbe potuto farlo -, il primo coordinatore nazionale di Forza Italia.

Defenestrato, comunque, dopo solo pochi mesi dalla guida del nuovo partito (si illudeva, forse, di considerare Berlusconi un leader politico classico), si gettò anima e corpo in una nuova avventura editoriale: la rivista bimestrale Ideazione, che poi divenne anche una casa editrice e anche una Fondazione.
L’iniziativa di Ideazione è durata dieci anni, ed è stata davvero molto proficua. Non solo per aver messo insieme in maniera polifonica ambienti e spezzoni di diversa matrice – da chi si era formato sul laboratorio riformista di MondOperaio a un gruppetto di ex radicali vogliosi di rimettersi in gioco, dal liberalismo laico e cattolico al circuito libertarian,  da alcuni reduci dell’esperienza nota come “nuova destra” a un giornalismo in un modo o nell’altro definibile come irregolare – ma anche per aver almeno tentato di dimostrare, sul versante politico-culturale, che quello dell’egemonia della sinistra era ormai un feticcio destinato a finire in archivio.