the holdovers grande

Fino alla prima mezz’ora The Holdovers (“I resti”, “I rimasugli”) sembra un canonico film sul necessario superamento dei pregiudizi, poi si capisce che c’è dell’altro.

L’innesco della storia riporta alla mente Breakfast Club, cult anni Ottanta in cui cinque studenti restavano reclusi per punizione nella propria scuola per un sabato intero.

Anche qui ci sono cinque studenti confinati in un college del New England, ma la situazione è diversa: non potendo rientrare in famiglia, per varie ragioni, devono rimanerci per l’intera durata delle vacanze di fine anno (siamo nel 1970).

A sorvegliarli viene designato il professor Hunham, il più dispotico e detestato della scuola (Paul Giamatti), che da subito comincia a scontrarsi con loro, in particolare con l’ombroso Angus (Dominic Sessa), abbandonato lì in extremis dalla mamma da poco risposatasi con un milionario.

Appena la storia sembra aver trovato il suo binario definitivo atterra un elicottero e cambia le carte. Il papà di uno degli studenti rimasti manda infatti a recuperare il figlio per portarlo a sciare. Vista la situazione, si offre di ospitare anche i compagni, che aderiscono entusiasti. Partono tutti meno uno, Angus, i cui genitori sono irrintracciabili e quindi impossibilitati a dare il necessario consenso.

Il gruppo si riduce dunque ulteriormente e definitivamente a tre persone: il professor Hunham, Angus e Mary, la cuoca della scuola che ha da poco perso il proprio unico figlio in Vietnam.

Appena i tre protagonisti restano soli (“Soli, ma insieme”, come recita l’azzeccato claim sulla locandina) la trama prende una direzione più intima e tocca temi, contesti e profondità non previsti e non scontati.

Così un film già godibile diventa una moderna e toccante fiaba di Natale, e anche se Alexander Payne non è Frank Capra ci si commuove facilmente. Paul Giamatti, Dominic Sessa e Da'Vine Joy Randolph sono bravissimi (il primo e l’ultima hanno già vinto un Golden Globe per le loro interpretazioni), e la storia - come dicevo in apertura - si indirizza presto oltre le mere contrapposizioni tra i protagonisti, che proprio riconoscendosi e dandosi fiducia creano le premesse per farla evolvere.

Nel rapporto con Angus il professor Hunham esplora una sorta di paternità mai vissuta, e trova il coraggio di guardarsi finalmente indietro, portando la sua vita su un inedito piano di libertà e insieme di responsabilità. Angus è invece un figlio senza carezze e senza reali riferimenti, di cui tuttavia si può davvero dir poco per non rischiare di svelare alcuni aspetti essenziali del film.

I due trovano nel tempo una improbabile complicità, che consente ad entrambi di mostrare all’altro il proprio lato più autentico e inconfessabile, senza che però si cada in eccessi di retorica o luoghi comuni. Mary è invece un personaggio laterale ma centralissimo: quello di una donna che avendo perso il proprio figlio diventa in qualche modo madre del mondo.

Se il film sta in piedi così bene, se arriva così bene a destinazione, il merito è di tre attori formidabili e di una sceneggiatura classica ma al tempo stesso solida, capace di variazioni che tuttavia non ne intaccano l’equilibrio.

Si esce dalla sala con la sensazione di aver visto un film tradizionale come genere, ma estremamente moderno nella sua interpretazione. E, soprattutto, si esce dalla sala contenti.