perfect day grande 

Hegel parlava di “adultitudine di pensiero” riferendosi alla condizione necessaria a comprendere repertori e paesaggi intellettuali che abbiamo avuto in eredità, riuscendo infine ad ascendere ad uno stato superiore di consapevolezza.

Dopo aver visto Perfect Days di Wim Wenders credo che esso rappresenti un autentico manifesto sull’adultitudine, e più in generale sul riuscito compimento dell’età adulta.

Non so se questo sia - come si è scritto - il miglior Wenders di sempre, ma certamente parliamo di un’opera che ne suggella il percorso artistico e intellettuale, e che arriva all’essenza dei temi umani ed esistenziali a lui cari attraverso una narrazione forse mai così scarna, e al tempo stesso densa di messaggi e significati originali.

Il protagonista, Hirayama (Kōji Yakusho, premiato a Cannes 2023 come migliore attore proprio per questo film) addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, vive una vita solitaria e modesta, scandita da abitudini e ritmi che apparentemente sembrano mortificarne ogni ipotesi di realizzazione personale. La realtà è tuttavia molto diversa.
Osservandolo ripetere le sue piccole azioni quotidiane scopriamo che non c’è nulla in lui di deprimente, e anzi quegli stessi ritmi e gesti seriali segnano un preciso e definito scopo quotidiano.

Non solo. Anche il contesto in cui abita e che più genericamente frequenta - dal lavoro al tempo libero - per quanto umile, possiede una forte dignità estetica e soprattutto contiene una serie di relazioni personali che da subito appaiono profonde nella loro semplicità.

Sorprende, di quest’uomo, la non ostentata capacità di meravigliarsi e di emozionarsi per le piccole cose, e di prendersene cura.

Sono le piante a cui si dedica all’alba, sono le vecchie cassette musicali con le vecchie canzoni che lo accompagnano al lavoro, sono le fotografie scattate agli alberi all’ombra dei quali consuma il suo pranzo.

Lo spettatore viene coinvolto dalla serenità con cui Hirayama attraversa la sua vita, ma diventa presto chiaro come quella serenità sia un atto volontario, un esercizio disciplinato del quale tuttavia non si avverte peso o disagio.
Per questo ho parlato di manifesto sull’adultitudine.

La serenità che Hirayama esprime è lo stato d’animo di chi non misura se stesso e le proprie scelte su basi convenzionali, e vive con coraggio la propria lateralità: sapendo di stare fuori da uno schema cosiddetto ordinario, nella consapevolezza di una solitudine quasi metodica.

Proprio attraverso queste scelte e questa consapevolezza, che appunto intuiamo essere il frutto di un disciplinato atto di volontà, Hirayama riesce ad elevarsi allo stato più completo dell’essere adulto: in cui non si vive nell’ossessione di essere abbastanza, ma più semplicemente, si cerca di vivere.

È una cosciente e laboriosa opera di sottrazione di sé, che fa tesoro di quei paesaggi intellettuali di cui parlo in premessa, che abitano i libri di cui Hirayama si circonda, e che sceglie con la consueta attenzione.

La scena finale, anch’essa straordinaria nella sua essenzialità, mostra la solitudine e il dilemma emotivo di un uomo che è ben presente ai propri limiti, ma se possibile rafforza un invito di rara sensibilità e intelligenza “alla vita adulta”.

È una sorta di crepuscolo anche biografico (probabilmente a raccontarsi è lo stesso Wenders) in cui emerge la capacità, per citare un incantevole quadro di Proust, di ascoltare “quelle campane di conventi che il clamore della città copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si rimettono a suonare nel silenzio della sera”.