titan grande

La tragica morte dei cinque passeggeri del sommergibile "Titan" e la costosa ma vana corsa contro il tempo per salvarli hanno posto al mondo intero diversi interrogativi etici concernenti principalmente i criteri – anche inconsapevolmente – classisti con cui viene misurato il valore di una vita umana.

La tragica morte dei cinque passeggeri del sommergibile "Titan" e la costosa ma vana corsa contro il tempo per salvarli hanno posto al mondo intero diversi interrogativi etici concernenti principalmente i criteri – anche inconsapevolmente – classisti con cui viene misurato il valore di una vita umana.

Fra gli altri, Elly Schlein prima e Barack Obama poi hanno messo a confronto la solerzia e la mole dei mezzi impiegati nella ricerca del sommergibile "Titan" e l’indolenza (sistematica? Frequente? Occasionale?) con cui vengono attivati i soccorsi per le imbarcazioni stracolme di migranti in condizioni di pericolo ("indolenza" che riguarda i piani alti, perché l'impegno e la professionalità degli addetti ai lavori, "governativi" e "non governativi", nel salvare vite umane è esemplare).

Né l'una né l'altro, ovviamente, ha inteso che i cinque esploratori non bisognasse nemmeno cercarli in ragione di una macabra parità al ribasso tra ricchi e disperati; hanno al contrario inteso che i secondi sono degni delle medesime attenzioni di cui hanno goduto – purtroppo vanamente – i primi.

Il ragionamento desta approvazione immediata sul piano emotivo (è del resto, absit iniuria verbis, un ragionamento po' "sloganistico", ma l'adozione di registri semplicisti è ormai uso frequente anche dei leader non-populisti), ma regge un po' meno al cospetto di un più lucido approfondimento critico. Anzitutto si tratta di un paragone inappropriato, per la natura e la portata dei due fenomeni messi a confronto; secondariamente, mettendo in discussione il "criterio della prossimità" – geografica, culturale… e tanto altro, un "altro" che ci vergogniamo ad ammettere anche di fronte noi stessi – non ne uscirebbe assolto nessuno e ci si impantanerebbe in vexatae quaestiones alte in determinati contesti ma molto infantili ai piani bassi della nostra quotidianità (tipo: «perché gli ucraini sì e gli yemeniti no?»).

Tutto ciò premesso, di fronte alle esperienze estreme, anche ma non solo se precluse ai più per questioni di carattere economico, vi sono reazioni pre-ideologiche e a-ideologiche che prescindono da qualunque confronto – più o meno inappropriato e/o strumentale – con le drammatiche vicissitudini dei poveri della terra.

La ricchezza privata, per ragioni ancestrali e antecedenti alle tradizioni cattolica e socialista (per migliaia di anni l'uomo ha vissuto in tribù all'interno delle quali per forza di cose la disuguaglianza economica non era contemplata: si era tutti radicalmente poveri), viene vista alla stregua di una colpa; non ci sono margini per sottilizzare, il panfilo di Leonardo Del Vecchio – il compianto imprenditore partì, com’è noto, da una condizione di estremo svantaggio – finisce nello stesso calderone del panfilo di un ereditiere o di un cleptocrate russo. In quest'ottica non esiste una ricchezza "buona", né perché intesa, a monte, come effetto della redditività di un'idea geniale (che magari ha migliorato la vita delle masse…) concepita e perfezionata anche in vista di quei profitti potenziali che, non ce ne voglia Mariana Mazzucato, come incentivo agiscono sul singolo meglio che sullo Stato; né perché intesa, a livello sistemico, come costo da sostenere, nell'ambito di un'economia di mercato, per avere abbondanza assortimento ed efficienza, tre condizioni di cui nessuna economia pianificata ha mai potuto far vanto a fronte dell'eguaglianza (possibilmente non nella miseria) che avrebbe dovuto garantire.

Abbiamo dunque sperimentato in queste settimane che esiste una soglia reddituale e/o patrimoniale oltre la quale, pur in piena era della suscettibilità (copyright by Guia Soncini), fare dell'umorismo nero è lecito – se non perfino doveroso, nell'ottica di una sorta di stalinismo simbolico e "al dettaglio" per cui se ne muoiono cinque si è appagati come se ne morissero cento.

Vi è poi, come si diceva, anche un'ostilità a-ideologica per chi intraprende avventure estreme (la ricchezza, in tal caso, è semplicemente un'aggravante), perché questi, pur agendo senza sfidare nessun altro che sé stesso, finisce inevitabilmente per ergersi su tutti gli altri, che al suo cospetto si sentono ridotti a una pluralità indistinta immersa nell'opacità e nella ripetitività della vita ordinaria.

Di fronte l'incidente capitato a uno scalatore, a escursionisti "estremi", a un deltaplanista ecc. taluni avvertono l'irresistibile impulso di esclamare un compiaciuto e dispiaciuto al contempo (la natura umana è complessa…) «se l'è cercata!», foss'anche lo scalatore, l'escursionista, il deltaplanista più meticoloso – perché d'altro canto è perfettamente legittimo colpevolizzare chi si avventura con sciatteria in esperienze estreme e a quanto pare, sia detto a margine, chi organizzava la spedizioni sottomarine col Titan da tale sciatteria non era esente.

L'imprevisto in cui è incappato, ad esempio, un pur accorto alpinista è l'alibi perfetto per continuare a navigare nelle acque sicure (ancorché terribilmente, noiosamente routinarie) del rischio minimo e della ordinarietà.

Non si sta postulando machiavellicamente la malvagità della natura umana; se ne sta piuttosto sostenendo la complessità: la tensione verso la grandezza viene messa a tacere dal calcolo razionale e dal canto delle sirene della comfort zone, così andando a male e trasfigurandosi in un veleno (battezzato "schadenfreude" dai tedeschi) che finisce per entrare in conflitto con quel sentimento solidaristico altrettanto connaturato alla natura umana – si generalizza, va da sé: non l'Uomo, ma gli uomini abitano la terra, per citare Hannah Arendt, e in questa pluralità c'è di tutto, anche chi vuole sottrarsi ad essa.