umberto eco

M’apprestavo stasera a sbrigare le ultime faccende, controlla le chiavi, verifica la telecamera di sorveglianza, le solite mansioni da custode, insomma, per quanto uno si chiami Pietro e gli sia stato detto che su di lui saranno costruite chiese un custode quello fa, ecco, la porta sul retro, le luci, i monitor, lame di luce lunare che entrano dalle vetrate opache.

Doveva essere una serata tranquilla, e invece - erano quasi le dieci - m’arriva un’informativa riservata. E io la leggo e ovviamente vado nel panico. Arriva quello lì. Quello lì, capito. Che sì, tutti gli uomini sono mortali, lui è un uomo, quindi prima o poi sarebbe successo, ma uno cerca sempre di non figurarselo; e già così infatti mi chiedo: e se fosse una menzogna? Come la distinguo? Una finzione narrativa? Una metafinzione narrativa? Rileggo l’informativa. Distinguo segni convenzionali di finzionalità? Vacci a capire.

Mi gratto la testa. Sudo. Pare che stavolta sia vero.

E, se è vero, bisognerà che mi prepari un discorsetto, se no che figura ci faccio, quello arriva e mi interroga. Il Professore. Mi schiarisco la voce. Ahem, ahem. Il discorsetto di benvenuto. Dovrò prepararne una sola versione? O tante, stilisticamente differenti? Povero me.

Allora. Stimatissimo, egregio... come lo chiamo... Ci penserò dopo: adesso pensiamo alla sostanza del discorso. Di che gli devo parlare?

Della morte, immagino. Come se quello della morte non sapesse già tutto. Della morte in sé e per sé, dell’essere-per-la-morte, della morte come frontiera semiotica, dei limiti culturali del concetto di morte, dell’ablazione del confronto con la morte, forse della rimozione stessa del problema della morte, della fisiologia mortale applicata al segno, o viceversa, non so. Gli dirò che sta entrando nell’eternità, e l’eternità è fuori dal tempo, non autem praeterire quicquam in aeterno, sed totum esse praesens; nullum vero tempus totum esse praesens, e lui mi dirà sì, questo è Agostino, credi che non l’abbia riconosciuto? E allora gli chiederò se ha sentito dolore o se ha mai pensato a questo ferale momento, e lui mi risponderà Mors hominum felix, quae se nec dulcibus annis inserit et maestis saepe invocata venit, felice è la morte per gli uomini, quando nei dolci anni non li coglie, ma ai doloranti giunge, sovente invocata, e io dirò, a-ha, Boezio, bel colpo vecchio mio, e ce ne andremo a braccetto sul limitare del Paradiso a rievocare un qualche testo che entrambi abbiamo amato, magari proprio quel Vita gaudiosa di Revoberto di Rohan, mistico bretone del dodicesimo secolo dalla vita travagliata e in gran parte oscura, che in pagine di rara bellezza e incauta - per i tempi - intimità letteraria descrive la gioia intellettuale d’essere liberi e ridenti in fronte a Dio e agli Uomini, con uno stile audace e impertinente che è stato poi ripreso, a secoli di distanza, da alcuni postmoderni tra i più eruditi che ne hanno fatto il tema principale del loro Kunstwollen, e tra questi ricordiamo i fondatori dell’Almanacco d’Avignone e dei Ludi linguistici del controenunciato, Ray Quenaille, Georges Perocque e Vernon Viansibor.

Io son qui da secoli, lui sarà appena arrivato, sarà curioso, per carità, era già curiosissimo in vita, non sarà mica cambiato per un accidente ontologico di poco conto come la morte, e quindi mi chiederà che cos’è questo e che cos’è quello, perché ci sono più cose qui che da voi in cielo e in terra e di conseguenza nella vostra filosofia, e mica tutto è stato scritto nei libri. E allora io gli spiegherò segni e significati, io gli pongo gli oggetti e lui li riceve come dati, e vediamo come si trova, ma dopo un primo momento di smarrimento sono convinto che saprà rispondermi a tono, un bel processo comunicativo intenzionale come non se ne vedevano da un pezzo, almeno da queste parti.

Mio ottimo amico... carissimo... no, ancora non trovo l’appellativo giusto. E poi, ora che ci penso, in che lingua ci parleremo? A me l’italiano sta benissimo, ma quello lì lo conoscete, non avrà fatto in tempo ad arrivare che già mi starà facendo tutto un discorso, lui a me e non io a lui, sulle potenzialità della lingua universale; come se qui non ci stessimo lavorando almeno dai tempi di Babele, tra l’altro. “Ma vede, Pietro, la pansemiotica cabalistica” mi dirà, col suo solito ineffabile sussiego, e io a corrergli dietro “Ma naturalmente, Umberto, e non dimentichiamoci di Raimondo Lullo” “Che si dice da queste parti delle lingue filosofiche a priori?” e io sempre più impacciato “Ma vede, professore, se vuole qui ho gli originali delle lettere tra padre Marino Mersenne e Descartes, anzi siccome voglio strafare ho anche Mersenne e Descartes in carne e ossa, o meglio, in spirito, se vuole glieli presento” e lui mi guarderà con condiscendenza come se gli stessi per fare un favore e non ne sapesse già più di me, e anche degli stessi Descartes e Mersenne.

Sudo ancora. Mi sa che mi devo sedere. Mi metto a pensare ai meccanismi inferenziali che guidano la comprensione di una conversazione potenziale. Mi chiederà qualcosa sulla teoria del riferimento? Mi pare di vedere la mia faccia: cerea, quantomeno, e con gli occhi sgranati. Me lo sento, quello lì, che mi vede, e con la sua erre un po’ acciaccata comincia: “Che brutta cera! Si sente bene, Pietro?” e io “Guardi, sto riflettendo sulla definizione di mitizzazione come simbolizzazione inconscia, lei si rende conto, io sono san Pietro, non sono solo una persona, sono un personaggio, e ora che ci penso anche lei è un personaggio, Eco, ormai che è passato di qua, ma si rende conto, siamo finiti nel tritacarne dei simboli nella cultura di massa, forse nemmeno in grado di demistificarci, di decostruire ciò che sta dietro la nostra immagine”, e lui “eh sì, guardi, passare da Ercole a Sigfrido a Orlando a Superman a Umberto Eco, tutto avrei voluto tranne questo, ma sa, per quanto siamo narrativamente più liberi in quanto figli della civiltà romanzo e non dell’astoricità del mito ci resta comunque lo sgradevole ruolo di archetipi”.

Eccellentissimo professore... ancora niente, un appellativo... ma non c’è tempo di prepararsi, sono passate da poco le dieci di sera, il tempo come struttura della possibilità, magari lo faccio parlare con Mike Bongiorno, l’intreccio della storia e il suo consumo, ma sta arrivando, le Gerarchie Superiori così hanno disposto, e se lo mandassi dai dolciniani, e se parlassimo d’amore, e no, non sta arrivando, non può essere vero, io non sono che un sogno, e lui sta sognando di me, come se si potesse sognare un sogno.