gravidanza

In un articolo di qualche anno fa, la bioeticista Chiara Lalli promuoveva la necessità di affrontare il tema della maternità surrogata, in Italia, in modo razionale. Confermando, suo malgrado, la scarsità di impostazioni argomentative capaci di razionalizzare il relativo dibattito pubblico. Dibattito che non può prescindere dall’esplicitazione delle prospettive normative applicabili alla questione e dall’analisi delle loro implicazioni alla luce dei dati empirici a disposizione.

Esercizio, questo, svolto da Claudia Mancina in un piú recente contributo. Membro della Commissione Nazionale di Bioetica, la Mancina sembra affrontare la questione da una prospettiva di “ethics of care”, ponendo cioé l’accento sul primato della relazione di cura tra gestante e nascituro e interrogandosi sulla sua interruzione. Senza, ciò malgrado, offrire una risposta definitiva alla domanda che tutti ci poniamo: è desiderabile che il legislatore italiano renda la Gestazione per Altri (GpA) una pratica accessibile al pari delle altre tecniche di procreazione medicalmente assistita?

L’Associazione Luca Coscioni per la Libertà di Ricerca Scientifica ha risposto avanzando una proposta di legge per l’introduzione della GpA solidale, pratica già in vigore in Canada e, in Europa, nei Paesi Bassi. I principali argomenti a favore della GpA solidale sono quelli di garantire pari accesso alla procreazione assistita a individui impossibilitati a gestare e la libertà della gestante di prestarvisi senza ricevere alcun compenso. Diritto e libertà che la GpA solidale tutelerebbe.

La comunità internazionale di eticisti è divisa su entrambi gli argomenti. Questo anche perché, al contrario di quanto sostenuto da alcuni frettolosi eticisti nostrani, la GpA non è suscettibile di comparazione con nessun’altra pratica medica. Sicuramente non con la donazione di organi, stupefacente paragone citato dalla Lalli a supporto del suo argomento a favore della GpA: ossia l’assenza di “certezza del danno”. Argomento che ignora decenni di letteratura di etica del rischio, unica prospettiva valutativa razionale su cui imperniare le politiche pubbliche nell’ambito del diritto alla salute, incluso quella riproduttiva.

È del tutto evidente che a monte dell’espianto di un organo come di un processo di gestazione per altri non esista alcuna certezza di un danno a chicchessia. L’inaccostabilità delle due pratiche è però altrettanto lampante. I rischi per la salute fisica e psicologica di donatore e gestante sono del tutto specifici; la relativa esposizione, anche. La differenza realmente discriminante peró consiste nel beneficio che viene perseguito: in un caso, quello del miglioramento delle condizioni di vita financo la sopravvivenza di altri individui; nell’altro, il soddisfacimento del desiderio di individui impossibilitati a gestare un feto di avere un figlio. Sia in linea di principio che di fatto, il rapporto tra i rischi ed i benefici della pratica di donazione di organi è quindi generalmente tale da giustifcarne la regolamentazione (e, scontatamente, i costi sociali). Il punto è stabilire se tale bilancio, nella GpA, sia altrettanto positivo.

E qui arriviamo al dato empirico. Purtroppo, insufficiente. Le prime documentazioni di esperienze di GpA basate su campioni abbastanza grandi da potersi considerare rappresentativi sono di recente pubblicazione (per esempio, Yee et al., 2019). Alcuni risultati sono incoraggianti: delle 184 donne canadesi intervistate per questo studio, la maggior parte si è dichiarata positiva rispetto all’esperienza di gestazione per altri. Il principale fattore di motivazione e soddisfacimento emerso è quello di avere avuto un impatto positivo sulla vita di altre persone. I risultati di questa ricerca però non permettono di ignorare la complessità di quei casi, altrettanto documentati, di gestanti che hanno rifiutato di abortire il feto in seguito alla richiesta dei genitori intenzionali; o che hanno ritirato il proprio consenso alla cessione del nascituro precipitando in una voragine legale; o di quelle che si sono ritrovate a crescerne uno per il rifiuto dei genitori intenzionali a riceverlo. Né devono distrarre dall’oscurità che circonda il fenomeno della gestazione per altri in aree del mondo dove, tra le maglie larghe della pratica commerciale, sfuggono tanto il vissuto delle gestanti quanto quello dei nascituri e dei futuri genitori.

L’argomento secondo cui la regolamentazione della GpA solidale in Europa è da favorirsi proprio in virtú del ricorso alla procedura in Paesi che ne permettono la pratica commerciale è, sotto il profilo etico, un classico “weak argument”. Sia per una mera osservazione causale – l’accessibilità della pratica solidale nel proprio Paese non implica di per sé la scelta di non far gestare dei feti a pagamento altrove – sia per l’evidente contraddizione morale: l’ammissione implicita di questo argomento è che la pratica commerciale della GpA è da scongiurarsi. Ma che diventerebbe in qualche modo giustificabile in assenza di accesso a quella solidale, la quale verrebbe quindi introdotta non solo sulla base di una valutazione di principio, ma anche con l’obiettivo di minimizzare il ricorso ad una sua versione non ammissibile.

Cosa che la GpA commerciale, inequivocabilmente, è. L’esistenza di un mercato internazionale di gestanti a pagamento con tanto di agenzie di intermediazione e relativo tariffario è condannata dalla maggioranza degli eticisti, proibita nei medesimi Paesi europei che permettono la pratica solidale ed esplicitamente condannata dal Parlamento Europeo. E sulla base, appunto, di un principio, che è l’inaccettabilità della commodificazione tanto del corpo delle donne quanto dei nascituri. Inaccettabilità motivabile, ancora una volta, razionalmente: di fatto, espandere il beneficio perseguito attraverso la GpA a quello economico della gestante implica incentivare un’assunzione di rischio psicofisico da parte di quest’ultima maggiore di quello che potrebbe voler tollerare altrimenti. Soprattutto se in condizioni di indigenza. Col risultato di aumentare la sua esposizione ai rischi psicofisici precedenti e successivi al parto, e di sdoganare de facto un mercato dello sfruttamento. 

Val la pena ricordare, infine e su tutti, il primato dell’interesse del minore; interesse che nel contesto della GpA non è sempre di immediata valutazione. Il Parlamento Europeo si è già espresso a favore del riconoscimento dei diritti di filiazione per i minori nati attraverso la GpA in Paesi con regolamentazioni differenti da quelle che applicano ai genitori al momento del loro rientro in patria. Una toppa su un buco importante; ma che non colma la voragine legale che si apre ogni qual volta che due giurisdizioni devono confrontarsi con casi della complessità, per citarne uno, di “baby Gammy”, un bimbo affetto da sindrome di Down conteso tra gestante e genitori intenzionali dalle sponde di due continenti.

Ma la questione piú insondabile di tutte resta quella che circonda il legame primario di cura tra gestante e nascituro. Legame neurologico e psicologico sulla cui formazione antecedente alla nascita non esiste alcuna controversia scientifica. La difficoltà di costruire solide basi conoscitive sulle conseguenze della sua interruzione e il dilemma di porsi in aperto contrasto con le piú banali linee guida per la salute – come la raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di allattare i neonati esclusivamente al seno per i primi sei mesi di vita – contribuiscono a conferire alle fondamenta di conoscenza e diritto che sorreggono la procedura della GpA un carattere intrinseco di fragilità.

Come in altri ambiti normativi che si confrontano con tale fragilità, al legislatore non resta che coniugare una base conoscitiva scarsa con dei principi generali. Esercizio che nel mio caso mi porterebbe a concludere quanto segue: anzitutto, la pratica della GpA solidale implica l’accettazione del primato della libertà degli individui coinvolti di assumersene i rispettivi rischi, e il relativo obbligo di tutela da parte dello Stato. Di contro, la sua regolamentazione obbliga il legislatore a dettagliare le condizioni di accesso alla pratica e di accordo tra le parti ad un livello tale da non poter rimuovere discriminazioni residue: banalmente, quelle conseguenti ai limiti di età per la gestante, ai requisiti psicofisici dei genitori intenzionali e via dicendo. Tant’è: tutte le tecniche di fecondazione assistita prevedono limitazioni simili. Il nodo etico piú difficile da districare è altrove. Ed è tra le pieghe delle condizioni tra le parti che lo Stato deve regolamentare nel rispetto dei diritti fondamentali di ognuno e dei principi di uguaglianza e solidarietà.

Due delle condizioni che filtrerei dalle pratiche vigenti in altri Paesi e che considererei imprescindibili per il legislatore italiano sono il riconoscimento della gestante come genitore legale fino alla nascita del bambino, e il suo diritto di ritirare il consenso alla sua cessione fino ad allora. Punti in netto contrasto con la proposta di legge dell’Associazione Luca Cosconi, che resta il punto di partenza per promuovere un dibattito informato nel Paese. Ma che sostiene che “l’atto avente per oggetto la rinuncia ai diritti genitoriali sul bambino che nascerà è un atto irrevocabile…al fine di evitare che la gestante per altri possa cambiare idea”. Cioè al fine di azzerare il rischio di non ottenere il beneficio perseguito dai genitori intenzionali, imponendo peró il relativo onere interamente alla gestante, che si ritroverebbe impossibilitata a ritirare il suo consenso alla procedura a partire dal momento del trasferimento in utero dell’embrione; cioè considerevolmente prima del parto, e al netto delle trasformazioni psicofisiche che la gravidanza mette in atto.

Credo invece che questo rischio debba essere pienamente condiviso dai genitori intenzionali. Perché se la genitorialità non è un fatto di geni ed embrioni, non è nemmeno riducibile alla pura intenzionalità: è un legame primario di cura – come sottolinea la Mancina – a cui va riconosciuto il primato sugli altri. E a cui va destinata, aggiungo io, pari solidarietà anche nel raro e sfortunato caso in cui l’instaurazione di tale legame durante la gravidanza dovesse condurre la gestante a non potervisi piú sottrarre senza subire un danno grave, prolungato ed irreparabile nel tempo.

La ricaduta di questa condizione è quella implicata dal legislatore olandese quando afferma che la ricerca di una “draagmoeder” è un onere a carico dei genitori intenzionali a partire dal loro contesto di relazioni sociali. L’onere di identificare una gestante di fiducia tale da prevenire il rischio di vederle “cambiare idea” è, in altre parole, un onere privato, che si snoda ed esplicita nella sfera relazionale dei genitori intenzionali a partire dalle loro madri e sorelle, cugine ed amiche, vecchie compagne di strada e le nuove che potranno incontrare lungo il percorso di ricerca.

Non è un onere a cui lo Stato possa sostituirsi attraverso l’imposizione formale del divieto di “cambiare idea”. Non a meno di privare la gestante del diritto di esercitare la libertà di ritirare il suo consenso informato solo una volta maturatane appieno la capacità. Ma soprattutto, non a meno di considerare la solidarietà un principio unidirezionale.