giulio tremonti grande

L’onorevole Tremonti, che è uomo colto e mai banale, deve essersi dato alla rilettura dei classici. Tra gli scaffali della sua fornitissima libreria deve esser incappato nelle opere di Nietzsche. E qui la folgorazione, anzi, visto il periodo dell’anno, l’epifania: vi ha letto che secondo la teoria dell’eterno ritorno “lo sviluppo momentaneo deve essere una ripetizione, e così quello che lo ha generato e quello che da esso nasce, e così via: in avanti e all’indietro! Tutto è esistito innumerevoli volte, in quanto la condizione complessiva di tutte le forze ritorna sempre”. Capperi, deve aver esclamato arrotando la “erre”, “è proprio quello che fa per me”.

A rileggere la sua parabola politica se ne trova conferma. Già una diecina di anni fa, dopo le esperienze da visir della cupola, pro tempore ministro incontrastato delle finanze pubbliche, aveva preannuziato il suo ritorno alla politica.

Più che un ritorno alla politica, un ritorno alle origini. Infatti, di fronte ad una platea al tempo infarcita di nostalgici del socialismo, o meglio del craxismo, Tremonti aveva rispolverato le proprie radici, più politiche che culturali, tanto da dividere il mondo in due schiere: da un lato il male (i liberisti), dall’altro il bene (gli anti-liberisti). Inutile sottolineare che Tremonti si fosse autopromosso nella seconda schiera, dichiarando la propria fede socialista.

Completando così una piroetta iniziata ancor prima degli albori della seconda repubblica, al tempo appena maggiorenne.
Perché di super Giulio si conosce oramai tutto: brillante tributarista, si affacciò al mondo politico tra i cosiddetti Reviglio boys (tra i quali Alberto Meomartini e Domenico Siniscalco), tutti accomunati dal credo socialista, ovviamente riformista.

Ma la vera svolta per Tremonti avvenne nel 1994, quando non solo si candidò nelle file del Patto per l’Italia di Mariotto Segni (e venne eletto), ma aveva collaborato a scriverne, assieme al prof. Mario Baldassarri allievo di Franco Modigliani, il programma economico. Ed in campagna elettorale il brillante Giulio sparava ad alzo zero contro le ricette economiche, a parole manchesteriane e thatcheriane, dell’Achille Lauro della Brianza. Il dissidio tra i due futuri protagonisti dell’era berlusconiana durò poco: dopo le elezioni del 27 marzo 1994, a Tremonti si deve il primato del salto della quaglia. E divenne d’un tratto Ministro delle Finanze.

L’unione non fu certo un matrimonio di interessi. E nemmeno una mera collaborazione istituzionale: Tremonti, come ha confermato lui stesso poche ore fa, ha sempre avuto in uggia “il governo dei migliori”, e non avrebbe concepito un contributo da asettico tecnico. Egli fu, infatti, un vero e proprio ideologo di quella strana emulsione che fu il berlusconismo prima maniera: un misto tra monopolismo economico, giacobinismo politico, pseudo-garantismo giudiziario, e thatcherismo propagandistico. Quest’ultimo talmente propagandistico da non partorire una – una! - privatizzazione degna di menzione.

Si fece al punto coinvolgere, da teorizzare i tratti dello Stato criminogeno, in linea con la più divulgata, e crediamo assai poco letta, letteratura anarco-capitalista d’oltre-Oceano. In quella fase del Tremonti pensiero non vi era compito che se svolto dallo Stato non fosse destinato al fallimento, tanto da confidare la più cieca fiducia nella imperscrutabile mano invisibile del privato. Così convinto delle forze spontanee del mercato, da pensare che a prender a calci una scacchiera questa sarebbe caduta a terra con tutti i pezzi perfettamente in ordine.

Non ci meravigliammo molto, al tempo: il vento culturale tirava in quella direzione, e Tremonti era pur sempre l’anello di congiunzione, politica, tra il forzismo ed il leghismo, il cui tratto comune non era l’individualismo liberale, ma il ribellismo anarcoide contro qualsiasi dovere, in primis tributario. Ed in questo, il superbo fiscalista aveva molto da insegnare, avendo fatto la gioia, come professionista, di fior fior di clienti.

La parabola di Tremonti toccherà, poi, nuove vette con lo smascheramento del “buco” di bilancio lasciato dai governi delle Sinistre (lui che con la sinistra aveva avuto un rapporto tutt’altro che platonico). Un modo elegante per poter giustificare il mancato rispetto delle sue promesse elettorali (riduzione delle tasse, in omaggio alla famigerata curva di Laffer, magari pure la flat-tax, l’aliquota uguale per tutti).

E prima di scoprirsi colbertiano, e quindi pronto al ritorno di fiamma per le giovanili passioni socialiste, Tremonti vestì i panni della fattucchiera di bilancio, re-inventando la “finanza creativa”, vecchia abitudine, non solo sua, di mostrare nelle pieghe del grande libro del debito pubblico, i miracoli del gioco delle tre carte. Abile, abilissimo, nello sfruttare uno dei difetti della matematica che, come diceva Ricossa, si presta ai colpi bassi. C'è, infatti, un «terrorismo matematico», che consiste nello spaventare l'avversario sparandogli contro raffiche di cifre, saldi, equazioni, derivate, integrali, logaritmi, matrici, teoremi e corollari.

In evoluzione permanente, Tremonti si riscoprì sedicente discepolo financo di Quintino Sella, ma non fu mai, come invece troppi socialisti sopravissuti al tracollo del PSI, una coscienza a nolo. Tremonti non ha mai avuto bisogno di far politica per campare, anzi. Anche se il suo distacco dal denaro non deriva da un malcelato atteggiamento aristocratico, ma da un borghesissimo (che detto da noi non può suonare come insulto) compiacimento per il proprio merito e dalla consapevolezza di essersi, lui sì, fatto da sé.

Tremonti, l’ex gran borghese della destra berlusconiana, non è però quel genere di borghese alla Tommaso Moro, votato al martirio, «decapitato (scriveva Mario Praz) per tener fede alla propria coscienza», contro l’acquiescenza, «che Enrico VIII, il re toro, pretendeva non già per motivi religiosi, ma solo per poter ripudiare una vacca in favore di un’altra». Tremonti si dimostra molto più il genere di borghese avventuriero, come avventuriero fu il Casanova, di cui il principe di Ligne diceva «è fiero perché è nulla». Quel genere di fierezza che lo porterebbe ad esclamare, nel tentativo di giustificare le sue conversioni e successive ri-conversioni culturali, che «l’uomo nelle sue relazioni intime e morali non deve conto delle sue azioni se non a sé stesso quaggiù, e dopo morte a Dio».

Gli unici giudizi ai quali Tremonti crede di dover sottostare, perché lui certo non ha mai avuto la necessità di far ricorso ai ritagli ed alle foto ritoccate care alla Enciclopedia sovietica. Convinto com’è di esser sempre rimasto coerente con sé stesso.

Ma questa è la storia di Tremonti. La cronaca lo rivede emergere oggi, anche lui convertitosi al potere maggioritario e quindi deputato di Fratelli d’Italia, lanciandosi contro la famigerata direttiva Bolkestein. Che non è un mostro parente del protagonista del racconto di Mary Shelley, ma più semplicemente la direttiva in forza della quale dal 31 dicembre 2023 i concessionari balneari sarebbero nella sostanza degli occupanti abusivi del suolo pubblico. Detto di passata: stiano attenti a non accendere la musica negli stabilimenti che corrono il rischio di vedersi contestare il reato di rave party. Ma questa è altra storia.

Ed eccolo il nuovo Tremonti, riverniciatosi non di nero – per carità che non si dice - ma di antracite, che fa molto ruolo istituzionale.

Citando alla lettera, e parlando a seguito della promulgazione della c.d. legge sulla concorrenza, tanto concorrenziale da evitare di affrontare il tema della messa a gara delle concessioni demaniali, più volte richiesta a livello europeo proprio in applicazione della direttiva Bolkestein: "Non è materia di cui oggi ho responsabilità e di cui mi occupo. Ma Frits Bolkestein è una persona che conoscevo molto bene e la sua azione era ispirata a un'idea di libertà di mercato europea, di movimento di capitali da una nazione all'altra, non all'interno dei confini nazionali. Si occupava di grandi movimenti, non del minimalismo del mercato italiano. Quella grande idea è stata deviata dalla burocrazia in un delirio del potere regolatorio. In altre parole, le chiedo: esiste oggi una domanda europea per cento metri di spiaggia in Calabria o per il mercato delle caldarroste a Roma o per le migrazioni di mercatini ambulanti dalla Baviera alla Lombardia? (...) Al punto in cui stanno le cose, capisco i vincoli e i rilievi, ma stiamo parlando di un mondo che non riflette più le esigenze e lo spirito di un'Europa che deve guardare avanti e non camminare con la testa rivolta all'indietro, come l'angelus novus. Quella che è stata un'eccezione deve diventare una regola, come nel caso della direttiva Toilet flushing, che doveva standardizzare gli impianti igienici delle case europee, dai lavandini ai bidet. Quella direttiva fu ritirata per astuzia una settimana prima della Brexit, ma la produzione di regole continua per stupidità, senza capire che la storia sta facendo una curva drammatica con la guerra di Putin".

Quindi, secondo Tremonti, quella direttiva aveva “un'idea di libertà di mercato europea, di movimento di capitali da una nazione all'altra, non all'interno dei confini nazionali. Si occupava di grandi movimenti, non del minimalismo del mercato italiano. Quella grande idea è stata deviata dalla burocrazia in un delirio del potere regolatorio. In altre parole, le chiedo: esiste oggi una domanda europea per cento metri di spiaggia in Calabria o per il mercato delle caldarroste a Roma o per le migrazioni di mercatini ambulanti dalla Baviera alla Lombardia?”

Chiaro?

Detto altrimenti: il mercato italiano è talmente irrilevante che le regole europee se le applichino in Europa, che l’Italia è un caso a parte. Al sole della penisola la concorrenza non funzionerebbe. Ed alle domande retoriche di Tremonti sarebbe facile rispondere che esistono magari delle domande italiane, anzi: patriottiche, per ottenere in concessione centro metri di spiaggia, in Calabria o in Veneto poco importa. Si chiama, appunto, concorrenza.

Ma la concorrenza europea non deve varcare i confini della patria: “oggi che il nemico si affaccia ai termini sacri della patria, i quarantasei milioni di italiani, meno trascurabili scorie, sono in potenza e in atto quarantasei milioni di combattenti, che credono nella vittoria perché credono nella forza eterna della patria”. Deve esser accaduto questo: la governante di casa Tremonti, nel fare la polvere, ha messo vicino ai volumi di Nietzsche la raccolta dei discorsi del Duce, anche lui dopotutto un ex socialista, e l’occhio è caduto sul celeberrimo discorso del bagnasciuga. Perfetto per difendere i balneari, al netto degli errori lessicali.
E così, pare, lo si sia sentito esclamare morettianamente “io sono un autarchico”.

Almeno, fino alla prossima piroetta. L’eterno ritorno, appunto.