murgia l grande

Esiste, o almeno dovrebbe, la partecipazione umana al dolore di una morte prematura; esiste l’ammirazione per come ha raccontato la propria malattia, e addirittura la gratitudine per la civiltà insita in una tale comprensione della morte, di cui tutti possono godere; esiste il dispiacere per la perdita di una scrittrice amata e una protagonista polarizzante del dibattito mediatico italiano degli ultimi anni; esiste, naturalmente, l’istantaneismo sentimentale dei social che viralizza la commozione e amplifica ogni dimensione personale. Esiste il fenomeno sociale (e non solo social) innescato dalla sua morte.

Michela Murgia è stata un’abile polemista di sinistra che ha avuto la capacità di inserirsi nelle rotative di un Paese in cui i polemisti di sinistra vengono incivilmente mostrificati dalla destra e anche per reazione santinizzati da un’area mediatica progressista. Lei è stata mostrificata e santinizzata come pochi altri, provocando e suscitando reazioni in un sistema mediatico pavloviano e iper-reattivo. Il fatto che in questi giorni sia stata presentata da così tante parti come una grande intellettuale non può essere interpretato solo nell’eco dei toni enfatici del commiato alla celebrità scomparsa. Racconta anche qualcosa della concezione odierna dell’intellettuale, in un panorama come quello italiano che di intellettuali pubblici di rilievo è particolarmente scarno da decenni. E indica che nell’orizzonte del nostro dibattito pubblico la polemica social è di gran lunga la principale forma di pensiero “influente”, con tutto ciò che ne consegue.

Se la polemica di per sé presuppone un obiettivo, la polemica social comporta un target: inteso nel doppio senso di bersaglio e di pubblico da coltivare (o sobillare). Su queste linee si è giocata grossomodo la totalità della sua produzione intellettuale e che noi meglio definiremmo polemica: di bersaglio e di proprio pubblico. Per fare l’esempio più lampante, chi scrive ciò che Murgia ha scritto e orgogliosamente ribadito su Hamas può appartenere a tre categorie di persone: i pazzi fanatici; quelle che non sanno bene di ciò di cui parlano; quelle che ricercano la provocazione di per sé. Non crediamo affatto che Murgia appartenesse alla prima categoria; siamo convinti appartenesse in una certa misura alla terza, ed è in un certo senso auspicabile che appartenesse anche alla seconda. D’altronde, quella citata è una polemica che nell’Italia di oggi polarizza ma non costa: chi mai si metterà a eccepire, se non il circo giornalistico della destra e qualche pedante filo-israeliano che non coglie i contesti? Suvvia, è chiaro cosa intendesse: sta dalla parte dei palestinesi, là dove si deve stare. È provocazione, è polemica “a fin di bene”.

Una dimensione del pensiero così sistematicamente provocativa e reattiva è certamente quella che meglio cavalca le dinamiche dei social. Ma è anche una dimensione adolescenziale, in linea con la generalizzata “adolescenzializzazione” prodotta dagli stessi social. Probabilmente non vale la pena di fare in questa sede l’esegesi dei fascistometri, dei catechismi queer, dell’analogia tra i maschi nel patriarcato e il figlio di un boss mafioso, della divisa del generale Figliuolo o del saluto della “Decima”. Piuttosto, la perdita di una indubbia protagonista del nostro dibattito pubblico, capace di ritagliarsi un ruolo dal nulla, è certamente stata un’occasione di riflessione proprio sul nostro “dibattito” e di osservazione delle sue dinamiche reattive. Dinamiche che, naturalmente, si sono replicate in occasione della sua stessa morte.