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Vivere godendo di un ordine mondiale sempre più aperto e liberale, immaginare un futuro dove una crescente armonia e pace sarebbero state dominanti; sono cose che forse per chi è cresciuto negli ultimi 30 anni parevano grossomodo acquisite. Sicuramente per quelli che avevano scordato la lezione del ‘freedom is not for free’. Questo 2022 ha rappresentato una scossa. Uno shock bellico dovuto alla scelta della Russia di Putin di invadere l’Ucraina e di minacciare, ancor più chiaramente del passato, gli equilibri europei e le nostre società democratiche.


A Kiev dobbiamo grazie anche per una lezione che l’Europa sembrava aver dimenticato: la libertà non è mai gratis. Ne ragioniamo col professor Vittorio Emanuele Parsi che insegna Relazioni Internazionali nella facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Come “la rivoluzione non è una cena di gala”, così la libertà non è un pasto gratis. E rendere il sistema politico internazionale sicuro per le democrazie comporta impegno, sacrifici, rischi. Il paradosso è che non fare niente, non impegnarsi, non sacrificarsi, implica invece la certezza di mettere a rischio la sopravvivenza delle nostre istituzioni e del nostro modo di vita. Stiamo imparando, con molta fatica, che la salvaguardia del Pianeta ha un costo e che dobbiamo contabilizzarlo tanto economicamente quanto socialmente quanto politicamente. 
Significa in realtà lavorare perché la Terra sia un ambiente ospitale anche per gli esseri umani, che non sono la più numerosa specie vivente sul pianeta - anche se forse la sola in grado di depauperarne le risorse in maniera così irreversibile - ma sono la nostra specie. Per le democrazie vale lo stesso discorso. Non rappresentano la specie politica più diffusa nel sistema internazionale. Anzi!. Ma sono la nostra specie politica, quella alla quale apparteniamo e con la quale ci identifichiamo. Dobbiamo metter in gioco una “ecologia della libertà”, e capire che la sopravvivenza delle democrazie è oggi più a rischio che mai e che nessuna democrazia isolata e imbelle può illudersi di sopravvivere.

L'Unione Europea è stata spesso oggetto di critiche per la sua inazione e lentezza davanti le crisi economiche e politiche. Questa volta come ha reagito?

La guerra scatenata da Putin in Ucraina mette in evidenza come solo dall’unione (e dall’Unione) può arrivare la salvezza. Di fronte alla guerra la UE e in particolare modo la Commissione europea ha mostrato coesione e visione. Ha reagito più velocemente che di fronte alla pandemia a quello che rappresentava un vero “cigno nero”, molto più della pandemia stessa. Pensare che la Russia potesse davvero scatenare una guerra su grande scala in Europa, per tentare di decapitare la leadership politica di uno Stato vicino, sovrano e neutrale, tentare di sostituirlo con un fantoccio e annetterne una parte (e, forse, successivamente tutta), violando impegni, trattati e promesse, era difficile fino al 23 febbraio scorso.
Di fronte a un cambiamento di scenario così repentino e drammatico, in netta controtendenza rispetto alla narrazione europea e su un campo - quello della difesa comune - ancora molto in alto mare, la Commissione ha reagito chiamando a sè gli stati membri e imprimendo una accelerazione incredibile al processo di trasformazione dell’Unione. Il Vertice di Versailles ha rappresentato questo: la presa d’atto dei Paesi europei e delle istituzioni comunitarie che essere la più grande area di libero scambio e di concorrenza economica al mondo, il luogo in cui la rule of law è meglio tutelata, la più grande area democratica sul Pianeta e l’economia più aperta sul mondo non è sufficiente nè per restare sovrani, nè per decidere del proprio futuro nè per influenzare il cammino del sistema politico internazionale in una direzione a noi non ostile. Occorre acquisire indipendenza energetica, capacità militari e loro coordinamento. Occorre un deciso salto di qualità politica. Chi si oppone a questo - compreso alcuni Stati membri e alcuni “leader” europei - si oppone all’Europa, alla nostra sicurezza alla nostra sovranità.

Veniamo da un biennio che ha già rappresentato un importante stress test per le nostre società: la pandemia ha messo a nudo le debolezze di una mancata cooperazione e integrazione sanitaria europea, adesso anche quella bellica emerge lacunosa. La Nato (che intanto riceve da Finlandia e Svezia richieste di adesione) può sopperire a tali buchi?

L’allargamento della NATO è la risposta alla situazione di drammatica insicurezza che la Russia ha generato con la sua guerra criminale, condotta oltretutto con modalità che non si vedevano più dal 1939-45. I governi sovrani di Svezia e Finlandia hanno scelto di abbandonare il loro status di neutralità perché hanno ritenuto giustamente che non li tutelasse più: come dar loro torto di fronte a un governo straniero che si comporta come quello russo? 
È solo l’ultima tappa di un processo che non hanno deciso nè a Washington, nè a Londra o a Bruxelles: ma a Helsinki e a Stoccolma. Esattamente come è avvenuto in passato a Riga, Praga o Sofia. La Russia non è minacciata da nemici esterni inesistenti e neppure da un’alleanza difensiva che per quasi 70 anni ha garantito la pace in Europa e nel mondo. La Russia è minacciata dalla sua leadership autoritaria e corrotta, da un’economia da terzo mondo che concorre al 2% di tutto il commercio mondiale nonostante sia un grande produttore di materie prime energetiche e non solo e di cereali. È minacciata da un’ideologia nazionalista xenofoba e che sa solo recuperare i “miti del passato” - l’impero zarista, l’Unione Sovietica, persino Stalin! - perché è incapace di guardare al futuro e di avere una proposta di futuro minimamente attraente per chiunque non sia russo e, credo, neppure per molti russi.

I russi non hanno raggiunto alcun obiettivo e hanno spinto paesi tradizionalmente neutrali a chiedere di aderire alla Nato. Economicamente sono in ginocchio e con una reputazione internazionale polverizzata. 
Se non fossimo in black mirror italia, questo sarebbe il titolo degli approfondimenti in tv mentre invece vediamo propaganda russa in onda quotidianamente. Il tema del circo mediatico impegnato ad accreditare menzogne e creare dibattiti dove aggressore ed aggredito pari sono, resta il tema dirimente.

In Italia abbiano un dibattito da “bar di guerre stellari”, con tutti i freaks che lo consumano, invece di alimentarlo. Dopo trent’anni di disinvestimenti in qualunque livello di istruzione e formazione, di televisione spazzatura, di nessun invito e ausilio alla lettura, di che cosa ci stupiamo? Questo è l’unico Paese in cui i giornalisti invitano altri giornalisti nella veste di “esperti” e in cui la qualifica di professore (in estetica, sociologia o fisica) è la semplice toppa per poter invitare chi fomenta risse e fughe dalla realtà. È il paese delle opinioni, anche se staccate completamente dai fatti, delle teorie anche se strampalate e confuse, dei giornalisti che non incalzano mai l’ospite che spara sciocchezze, perché magari neppure le riconoscono o, se lo fanno, sono comunque interessati allo share. Siamo il Paese in cui la penetrazione abnorme della propaganda russa ha suscitato articoli sulla stampa estera (da Politico.eu a Liberation). Siamo il paese in cui gran parte della leadership è opportunistica, incapace di indicare una via, assumersi rischi, richiamare alle dure necessità e restiamo un Paese in cui le subculture cattolica, comunista e fascista hanno alimentato per decenni uno spiccato anti-americanismo e anti-occidentalismo.

Nel suo libro “Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l'ordine liberale”, riflette sulla sfida del trovare un diverso equilibrio tra cooperazione e competizione, per rendere solide e attraenti le nostre democrazie di mercato. Che futuro aspettarci?

La guerra prima o poi finirà, come tutte le guerre. Ha esasperato problemi che già erano presenti e che dovranno essere affrontati ancora. Il principale è la perdita di inclusività politica ed economica dei nostri sistemi, la necessità di recuperare l’equità. Abbiamo reso sempre meno distinguibile la bandiera delle democrazie da quelle delle autocrazie, e così abbiamo assecondato l’introduzione di un cavallo di Troia dentro le nostre mura: un cavallo fatto di tecnocrazia e populismo.

Come per la Russia, anche se per ora su scala molto minore e in maniera diversa, vale il punto che le nostre debolezze interne esaltano le minacce (vere o presunte) esterne. Se non mettiamo mano a questo forse passeremo questa crisi ma saremmo travolti dalla prossima o dalla successiva. Dobbiamo tornare a fare sì che l’OLI (ordine liberale internazionale) protegga e tuteli l’ordine economico, politico e sociale interno delle democrazie dalle minacce esterne, chiamante guerra e crisi finanziarie. E non che protegga in maniera fideistica un’idea astratta di mercato. Dobbiamo invertire quel trend per cui la globalizzazione, concepita per far espandere e rafforzare le società aperte, per far fiorire le loro opportunità, ha negli ultimi hanno messo in tensione proprio le istituzioni - politiche, economiche e sociali - delle società aperte. Quello che è in gioco in questa sfida è niente meno che il nostro futuro e il futuro dei nostri figli e delle nostre figlie.

@antonluca_cuoco