Lo sciopero generale convocato per il 16 dicembre da CGIL e UIL appartiene a due delle formule sceniche più tradizionali dell'ammuina sindacale post-concertazione: quella di attaccare gli altri – in questo caso l’esecutivo – per confortare la propria parte e offrirle una prova di resistenza e attivismo, al di là dei risultati pratici; e quella di rompere con la controparte per resettare un processo negoziale esaurito o finito su un binario morto e quindi per riavviarlo con maggiore legittimazione e vigore. Anche in questo caso, l’obiettivo è conseguire un risultato che, più che essere utile in sé, confermi la centralità del sindacato e l’imprescindibilità dei suoi placet.

I sindacati italiani che hanno convocato questo sciopero rappresentano circa un sesto degli occupati italiani e circa un quinto dei pensionati, dunque una minoranza significativa, ma specifica (pubblico impiego, grandi imprese), del mondo del lavoro e una quota ancora più significativa di quella del “non lavoro”, che si attende dall’esecutivo interventi di protezione sociale in linea con quelli garantiti in passato.

D’altra parte anche nelle constituency interne la Cgil è per la metà e la Uil per un terzo composta da pensionati, per cui il sindacato è un organo di servizio o rappresentanza giuridica (il patronato), più che di rappresentanza politico-economica. Anche per questa ragione l’iscrizione al sindacato è sempre meno una questione di affiliazione ideologica. Alle europee del 2019, quasi quattro iscritti alla CGIL su dieci votarono per i partiti del governo gialloverde e quasi uno su cinque per la Lega.

In questo quadro, sarebbe inutile cercare nelle mosse di un sindacato “fatto così” una coerenza politica e una strategia di fiancheggiamento politico dei partiti teoricamente più vicini, di cui in tempi lontani le organizzazioni dei lavoratori rappresentavano le cinghie di trasmissione.

Dunque, non meraviglia che la CGIL decida per lo sciopero malgrado gli imbarazzi del PD e di Leu; a meravigliare è piuttosto chi si stupisce che la strategia dei sindacati sia di autoconservazione del proprio ruolo e degli interessi dei propri rappresentati. Dunque lo sciopero non è affatto irrazionale, anche se è nichilista. Razionalmente nichilista.

Il sindacato italiano, ancorché formalmente confederale, è oggi nel suo complesso un sindacato corporativo, che difende interessi corporativi. Non solo non è più rappresentativo, come detto, della generalità del mondo del lavoro, ma è rappresentativo di ceti e settori sociali che si oppongono in modo strenuo alle riforme necessarie per invertire un ventennio di declino. Quello che il sindacato italiano e in particolare la CGIL pensa si debba fare in materia di politica di bilancio, tassazione, disciplina dei mercati, formazione e istruzione e via continuando è sostanzialmente il contrario di ciò che servirebbe all’Italia per ridurre il peso delle zavorre che ne frenano la crescita: il debito crescente e presto non più assistito dagli acquisti della BCE; la produttività stagnante; la scarsa efficienza della PA; gli investimenti pubblici sacrificati alla spesa corrente di scambio politico-elettorale.

Grosso modo, il sindacato italiano oggi rappresenta quelli che vogliono che l’Italia non cambi o che cambi più lentamente possibile e questo spiega la convergenza tutt’altro che innaturale, anche se apparentemente paradossale, tra il sindacato più di sinistra, la CGIL, e un partito di destra come la Lega su molti temi sensibili, dalle pensioni, alle delocalizzazioni, alla cosiddetta “austerità”.

Dunque questo sciopero non deve stupire, come se fosse un errore, che non è. Deve piuttosto preoccupare, perché è una manifestazione evidente del fatto che tutto ciò che si raccoglie idealmente attorno al nome di Draghi (come prospettiva di riforma, come idea dell’Italia futura) vedrà il sindacato e la CGIL all'opposizione e il “campo largo progressista”, che Letta ha in testa, sostanzialmente a rimorchio delle sue istanze conservatrici. 

@carmelopalma