taglio parlamentari grande

A un anno esatto dall’approvazione della “sforbiciata” grillina alle Camere – finalizzata più all’esibizione catartica in piazza delle poltrone robespierrianamente tagliate via che a una qualche massimizzazione dell’efficienza del nostro sistema politico-istituzionale – si è immancabilmente riaperto il dibattito sulle riforme costituzionali. Lo scorso martedì, su La Stampa, è stato l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ad avanzare le sue tre proposte: fiducia a Camere riunite, sfiducia costruttiva, potere di nomina e di revoca dei ministri sostanzialmente in capo al Presidente del Consiglio (che dunque diventerebbe un Primo Ministro).

Proprio a proposito di quest’ultimo punto, sarebbe interessante approfondire e capire in virtù di quale meccanismo di legittimazione, nel disegno di riforma abbozzato da Conte, verrebbe garantita al Primo Ministro una posizione di preminenza rispetto ai ministri da lui nominati e revocati: se si guarda al modello anglosassone, allora si potrebbe introdurre una forma di “premierato” intervenendo primariamente sulla legge elettorale e più blandamente sulla disciplina costituzionale del raccordo Parlamento-Governo (questo era grossomodo “l’impianto” del combinato disposto tra Italicum e ddl Renzi-Boschi, bocciati rispettivamente dalla Consulta e alle urne) o, per converso, modificando in maniera assai impattante la seconda (ci provò, tra il 2005 e il 2006, Berlusconi… ma il suo “premierato assoluto”, così come lo battezzò Leopoldo Elia, venne anch’esso bocciato alle urne). Se invece si guarda al modello tedesco – forse preferibile, dato il contesto politico-partitico: il nostro vacillante bipolarismo di coalizione somiglia più al multipartitismo temperato tedesco che al bipartitismo inglese – allora bisognerebbe introdurre l’elezione diretta del Primo Ministro da parte delle Camere, così come previsto, lo si ricordi en passant, dal progetto elaborato tra il ’92 e il ’94 dalla Commissione De Mita - Iotti.

Quanto alla sfiducia costruttiva – anch’essa prevista nell’appena menzionato progetto: è facile comprendere che l’intento era quello di importare il modello tedesco quasi nella sua interezza – si potrebbe osservare che tale istituto, assente nella nostra Costituzione formale, ha tuttavia fatto ingresso in quella materiale sotto forma di prassi: almeno da dieci anni a questa parte nessuna crisi di governo è stata aperta al buio. Proprio Conte dovrebbe esserne consapevole: ne ha beneficiato l’altro ieri (il Conte bis era bell’e pronto, all’indomani del Papeete); ne è stato “danneggiato” ieri (la carta Draghi non è stata certo pescata a occhi chiusi e per disperazione dal mazzo di Mattarella…).

Mercoledì, sempre su La Stampa, Giorgia Meloni ha risposto a Conte tirando fuori un vecchio cavallo di battaglia del centrodestra: il presidenzialismo. Com’è ormai chiaro a qualunque osservatore, l’introduzione ex abrupto di una forma di governo così estranea alla nostra tradizione politico-giuridica sarebbe troppo traumatica per essere ritenuta realizzabile, specie considerando che in anni recenti l’establishment mediatico-culturale e l’opinione pubblica si sono dimostrati ostili a forme di verticalizzazione e stabilizzazione del potere esecutivo assai più blande. Quella di Meloni è, come sempre, una proposta-manifesto. Il più ambizioso tentativo di presidenzializzazione del nostro sistema politico-istituzionale è stato esperito nel ’97 nell’ambito della “bicamerale D’Alema”: il progetto prevedeva l’introduzione di un semipresidenzialismo temperato (elezione a suffragio universale diretto del Capo dello Stato, fra le altre cose), ma Berlusconi fece saltare il banco e non se ne fece nulla.

A proposito di semipresidenzialismo, hanno destato parecchie perplessità le dichiarazioni rilasciate da Giancarlo Giorgetti a Bruno Vespa  nelle prime pagine del suo libro-strenna circa l'ipotesi di mandare Draghi al Quirinale perché anche da lì possa «guidare il convoglio»: si tratterebbe – sempre a detta di Giorgetti – di semipresidenzialismo a Costituzione invariata. Il contraltare governista ed europeista di Salvini vorrebbe dunque l’attuale inquilino di Palazzo Chigi al Quirinale e “un suo uomo” (Daniele Franco?) a Palazzo Chigi – e allora si tratterebbe, più correttamente, di mandare Draghi al Quirinale nella prospettiva del contestuale insediamento di un “governo del Presidente”.

La disciplina sul Capo dello Stato nella nostra Costituzione è, com'è noto, volutamente laconica: affinché i mutamenti dello scenario politico-partitico (e della legislazione elettorale) nel corso dei decenni non impattassero contro una disciplina di dettaglio data una volta e per sempre, i padri costituenti scelsero appunto di lasciare parecchi “spazi bianchi”… Per questo tale disciplina s'è rivelata compatibile con tutti i tipi di assetti susseguitisi nella storia della Repubblica; per questo, come ha scritto qualcuno, «ogni teoria sulla figura e il ruolo del Presidente della Repubblica rappresenta l'ipostasi della “storia” di ciascuno degli uomini del Quirinale» (ognuno ha deciso, in base a indole e contesto, come impostare il proprio settennato). Ecco, la lettera della Costituzione di per sé non preclude una sovraesposizione politico-istituzionale del Capo dello Stato, sebbene vada per la maggiore l'ormai arcinota storia del dovere di “terzietà notarile”… Perciò sono stati leciti – ovviamente – tutti i governi del Presidente.

Il primo fu… del primo Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi: dopo le politiche del '53, falliti i tentativi di De Gasperi e Attilio Piccioni di formare un governo, conferì l'incarico a Giuseppe Pella bypassando le consultazioni (!) e nominando amici suoi (!!!) nei vari dicasteri; Sandro Pertini, durante il suo settennato, fece avvicendare diversi governi del Presidente (merita una citazione il tentativo naufragato di “governo a tre” Andreotti - Saragat - La Malfa, questi ultimi chiamati in qualità di vicepresidenti); Scalfaro impostò il suo settennato in maniera così marcatamente semipresidenzialista da far parlare di “semipresidenzialismo intermittente”, per l'appunto (Governo Amato I: pilotò le politiche tese a contenere il disavanzo pubblico in vista della partecipazione dell'Italia al processo d'integrazione europea; Governo Ciampi e Governo Dini: mise a fuoco gli obbiettivi programmatici di fondo); Gronchi rivendicò sin dal discorso d'insediamento una “funzione di impulso” ed esercitò forti influenze sulla composizione degli esecutivi al momento della loro formazione (Governo Zoli e Governo Tambroni in particolar modo).

Si sia trattato di torsioni semipresidenzialiste o di estensioni della fisarmonica quirinalizia perfettamente compatibili con un parlamentarismo di tipo monista, è chiaro che un eventuale e immediato trasloco da Palazzo Chigi al Colle – per di più, come si diceva, nella prospettiva del contestuale insediamento di un governo del Presidente – rappresenterebbe comunque un inedito “annuncio” di sovra-politicizzazione del ruolo Capo dello Stato… e senz'altro la statura politico-istituzionale di Draghi, unitamente alla “liquefazione” dei partiti, è tale che qualunque governo nel corso del settennato lavorerebbe all'ombra del Quirinale.

Comunque sia, per chiudere il cerchio e tornare alle riforme de iure, a un anno dalla sforbiciata grillina cui si accennava il pacchetto di “correttivi post-taglio” promesso all’indomani del referendum non è stato ancora neppure discusso. La proposta di riforma costituzionale elaborata dal PD nell’Ottobre dello scorso anno prevede fra le altre cose, sulla stessa scia della “bozza Conte”, la valorizzazione del Parlamento in seduta comune. Se l’asse Conte-Letta riuscisse a “trovare la quadra” in tal senso, l’unica vera riforma che dagli anni ’80 del Novecento agli anni ’20 del Duemila il legislatore sarà riuscito a portare a termine sarà quella del bicameralismo paritario, non ai fini di una sua differenziazione – fiducia monocamerale (Camera politica) e parlamentarizzazione del raccordo centro-periferie in una Camera bassa (Camera territoriale) – quanto piuttosto ai fini della sua… radicalizzazione in una funzionalissima invenzione d'architettura istituzionale tutta italiana: una sorta di “monocameralismo scomponibile”.

Le Camere si eleggeranno separatamente, con maxi-collegi che determineranno soglie implicite alte anche col più proporzionale dei sistemi elettorali pur facendo guadagnare poco o nulla in termini di governabilità; poi – se si proseguirà sulla “linea giallo-rossa” – si riuniranno così spesso e per svolgere funzioni così determinanti l'essenza del Parlamento da configurare, appunto, un monocameralismo. La verità, pessimisticamente, è che tanta fortuna ebbe l’ordinamento italiano nell’ambito del “potere costituente” nel ‘48… quanta sfortuna ha, dagli anni ’80 a oggi, nell’ambito del “potere di revisione”. Non potendo sperare che chi rimetterà mano alla Costituzione la migliori, ci si può solo augurare che non la peggiori troppo.