“Forse questo ti sembrerà strano
Ma la ragione ti ha un po' preso la mano
Ed ora sei quasi convinto che
Non può esistere un'isola che non c'è”

(E. Bennato, 1980)

Quanta acqua è passata sotto i ponti, da quando Bennato più di quarant’anni fa temeva che chi lo ascoltava fosse diventato incapace di credere a quello che non poteva spiegarsi o vedere con i propri occhi. Avremmo proprio bisogno, oggi, di farci prendere la mano dalla ragione, dalla comprensione dei rapporti di causa-effetto, dalla logica aristotelica e dal rasoio di Occam! Da un lato invece siamo diventati prede del complottismo più triviale (che qui non prendiamo nemmeno in considerazione); dall’altro siamo purtroppo vittime di una capacità affabulatoria che nasconde e annega la realtà sotto l’acqua di mille racconti, pur di non vederla.

L’analisi del voto (soprattutto del voto amministrativo) è un grande classico dei media italiani: praticamente un genere letterario, di cui sarebbe utile costruire un’antologia di articoli, interviste e servizi audiovideo in grado di ricostruire la storia di tic, manie e topoi che ci fanno compagnia da tempo. I vincitori intonano i loro peana, tanto più forti quanto più inatteso era il trionfo, gli sconfitti si consolano con quel che possono mettere insieme; e da quei risultati ci si arrampica il più in alto possibile, estrapolando intenzioni di voto nazionali e internazionali, e inventando, rinnovando o cancellando alleanze elettorali e sostegni al governo. Per poi scoprire, alla successiva chiamata alle urne, che le alleanze molto spesso sembrano valide tra i muri delle segreterie di partito ma tra gli elettori non hanno presa; che il 5% in una grande città si può trasformare in un 20% nazionale e viceversa; che nella stessa città i voti recuperati da un buon candidato sindaco non si trasferiscono automaticamente sui candidati di una lista nazionale... insomma, che un conto è la narrazione e un altro la realtà che quella narrazione avrebbe dovuto favorire.

Perché la ragione per cui alle elezioni (quasi) nessuno dichiara mai di aver perso è ovvia: al proprio elettorato bisogna infatti fornire un racconto minimamente credibile che spieghi il risultato, ma che sia anche motivante nel guadagnarne o confermarne la fiducia e nel portarlo alle urne la volta successiva. Lo storytelling politico-elettorale ha la funzione di provare a persuadere, anche di fronte ai peggiori tracolli, che non tutto è perduto, che le ragioni della sconfitta sono spesso altrove, che le idee espresse e i valori propugnati devono continuare a esistere sul mercato politico e che la prossima volta trionferanno; e ovviamente, nel caso di una vera e incontestabile vittoria, che “il vento è cambiato” (cit. Virginia Raggi) o che si fa parte di una “gioiosa macchina da guerra” (cit. Achille Occhetto).

Vado quindi alla domanda centrale: tra le cause del malessere e della disaffezione politica della nostra epoca c’è lo storytelling? No, non lo credo assolutamente. Penso che ci sia l’uso balordo (libresco e puerile allo stesso tempo) che molti politici ne hanno fatto, squalificandolo insieme alla propria credibilità: un uso che ha scambiato uno strumento economico e potente – anzi indispensabile per la costruzione del consenso – nel grimaldello con cui un qualunque spin doctor può creare fenomeni di successo immediati e travolgenti; cambia poco che questo avvenga inviando cassette registrate ai telegiornali (sto parlando di Berlusconi ma anche – absit iniuria verbis! – di Osama Bin Laden) o pubblicando sui social media foto, video, post e tweet.

È l’ipocrisia allora il problema dietro lo storytelling? Nemmeno: l’ipocrisia, nelle giuste dosi (minime) è uno strumento necessario al vivere civile, prima ancora che a chi svolge attività politica. Non vorrei vivere in un mondo in cui in pubblico si praticasse sempre e soltanto la parresia, il diritto-dovere di dire la verità! La radice dei guai in cui incorrono vincitori e vinti nel raccontarsi e raccontarci le ragioni dei risultati è la stessa che spiega certi congressi di partito e alcune primarie (o click days): scissioni fallimentari, figuranti con diritto di voto e schede in cui c’è una sola scelta sono state scene all’ordine del giorno negli ultimi anni, ma vengono denunciate come inaccettabili solo da chi ha perso. E, in un certo senso, è normale che sia così. Il problema semmai è l’opposto: cercare di annullare l’ipocrisia, pretendere che non esista differenza tra quel che “si deve dire” e quel che si crede.

Il guaio in altre parole è credere davvero al proprio storytelling pubblico, anche quando poi ci si deve chiudere nel quartier generale e ragionare sul da farsi. È credere, per esempio, che “50 sindaci in più su 1300 comuni al voto” siano un risultato rispettabile per chi due anni fa aveva più del 35% dei voti a livello nazionale; che un’elezione suppletiva in un collegio sempre vinto dal PDS fino al PD significhi che “si vince se si allarga la coalizione, anche oltre il PD”; che il 4 ottobre 2021 ci sia stato “un pareggio”; che davvero ci si possa dichiarare “delusi” dal risultato di una amministrazione scalcinata, che nonostante tutti i disastri ha ottenuto comunque il voto di un elettore su cinque.

Davanti a un fatto politico rilevante, ma anche semplicemente in un momento congressuale, o nel pensare alla propria azione politica, bisognerebbe saper distinguere tra la comunicazione esterna (che come dicevamo può e deve in qualche modo essere coinvolgente e galvanizzante, senza mancare comunque di credibilità) e l'analisi interna, che dovrebbe essere fatta senza sconti, con la massima sincerità possibile nel confronto tra le attese, gli strumenti e i risultati. Senza raccontarsela troppo, insomma, con l’obiettivo di fare meglio o di non sbagliare la volta successiva. Perché altrimenti non c’è modo di evitare di passare da un momento di euforia a uno di delusione, o dalla disperazione alla tracotanza.

Ma perché tutto questo è importante per gli elettori? Perché non ce ne potrebbe fregare di meno, se fosse solo una questione di tenuta psicologica e di alternanza della nostra classe politica. Ma questo atteggiamento dimostra un grave scollamento dalla realtà in cui quella classe politica dovrebbe governare, facendo cioè scelte che coniughino razionalità e consenso. Credo quindi che sia importante prenderne atto, e smetterla di accettare questa situazione: molti politici sono così vuoti di idee che si aggrappano con forza alle stupidaggini che sono costretti a raccontare, finendo per crederci davvero come era successo alla contadina Rosalina.

Mi pare molto pericoloso affidare a gente simile il nostro destino collettivo: e sono convinto che una fetta degli astenuti, che aumentano da anni, abbia ormai la stessa percezione. Anche di questo bisognerebbe cominciare a ragionare, quando si parla di disaffezione dei cittadini per la politica.