isere

C'è chi ha notato come la comunicazione dello Stato Islamico sia più sofisticata di quella di Al Qaida, che era legata ai modelli arcaici della predicazione dottrinaria videotrasmessa. Quella dell'Isis poggia invece sui canoni stilistici e tecnologici dell'immaginario social e sul reclutamento virale degli effettivi della guerra santa non solo tra i devoti dell'oltranzismo salafita, ma in quel gigantesco sotto-proletariato islamico alienato e frustato, che nell'oltranzismo e nella violenza ideologica trova un surrogato di identità e di affermazione sociale.

Evidentemente, questa facilità di impatto - che i piccoli numeri dei combattenti arruolati e la relativa improvvisazione militare dello Stato islamico rendono ancora più impressionante - diventa annichilente agli occhi di popoli, come quelli europei, che dopo avere venusianamente e onusianamente eccepito sugli "eccessi" della reazione americana post 9/11, sarcasticamente irriso al fallimento del nation building in Afghanistan e in Iraq, e poi pasticciato clamorosamente in Libia, ora si ritrovano in casa le schegge della guerra civile islamica seguita al proprio e all'altrui fallimento e oscillano tra offerte di dialogo, prive di senso e di interlocutori e riflessi isolazionisti ancora più velleitari, e neppure assistiti da condizioni minime di autosufficienza economica, demografica e strategica.

Il link tra immigrazione e islamizzazione è descritto dalla destra nazionalista come diretto e immediato - i migranti come truppe nemiche che sbarcano nella nuova terra di conquista - e negato dalla sinistra solidarista come un'aberrazione ottica - l'islamizzazione come prodotto dell'inefficienza delle politiche di integrazione e accoglienza e non come mutamento della demografia europea. Entrambe però sfuggono al nodo di fondo che è rappresentato dalla duplice impossibilità di deislamizzare un intero continente, senza precipitarlo nella guerra di religione che si vorrebbe scongiurare, e di vaccinare omeopaticamente la società europea dal pericolo islamista, tentando di contenere, ma non fronteggiare direttamente, gli "sfoghi" interni connessi alle tensioni esterne.

L'inadeguatezza europea nel governare politicamente un fenomeno, che ha radici globali e ideologiche, con misure locali e amministrative - buoniste e cattiviste che siano - diventa manifesta quando l'orrore varca la soglia di casa, come qualche giorno fa, vicino Grenoble. Si scatena immediatamente una babele di irrazionalità e di conformismi post-sciagura che non dicono politicamente nulla di significativo e di sensato. Non è corretto dire che oggi l'Europa rimuova il pericolo islamista, per esorcizzarne l'incombenza. Si potrebbe dire al contrario che invece l'Europa non riesce a emanciparsi dalla paura - e dal dovere di avere paura, che è la vera obbedienza che la sfida islamista esige ed ottiene dagli infedeli - e non riesce a pensare a una strategia diversa da quella dell'accordarsi in qualche modo con il nemico o dal tenerlo fisicamente fuori dalla porta di "casa nostra", promettendo in entrambi i casi di non mettere più piede a "casa sua".

È chiaro che tutte le possibili strategie alternative mettono a nudo i limiti di un continente politicamente cresciuto nella pace perpetua della Guerra Fredda, che non ha nessuna dimestichezza, ma una irrimediabile estraneità, con i fondamentali teorici e pratici di questo scontro. La guerra, anche quella ideologica a difesa dell' identità civile occidentale, la facevano gli "americani". Che ora però sono tornati a casa, come gli hanno chiesto per decenni i padri spirituali della destra e della sinistra che oggi incarnano l'Europa dell'impotenza, proterva o buonista.