lenin grande

La storia non celebra, al massimo ricorda. Ed è altrettanto vero, come sosteneva Croce, che la storia nemmeno esprime giudizi propri: non è giustiziera ma giustificatrice. Caso mai il giudizio che la Storia aiuta a formare andrebbe tratto ed elaborato da chi abbia voglia di frequentare le sue classi e le sue lezioni ed imparare a conoscere il passato. Magari per evitarne errori ed orrori.

Ora, poteva mancare il rimpianto per Lenin in occasione del suo centenario della morte? Ovviamente no. Persino la celebrazione del suo sogno infranto, come se quel che avvenne dopo la sua inumazione fosse addebitabile alla sola brutalità di Stalin. Si tratta di un rimpianto infantile e qui ci si limita a prenderli in considerazione come meri fatti. Forse, anzi, come sintomi.

Sintomi di un mai sopito disagio di molti che magari vivono in occidente disprezzandolo e si prestandosi a cader vittime delle alcinesche seduzioni di personaggi lontani e sicuramente non commendevoli. Il sogno di Lenin, quello di una società giusta e finalmente mondata dai vizi dell’umanità – non a caso mito proprio già del giacobinismo francese – non era un sogno, ma un incubo.

Non è nemmeno vero che Lenin abbia abbattuto il potere dello Zar in Russia. Quel potere era caduto, sfibrato dalle fatiche della Prima guerra mondiale e da anni di mancate riforme economiche e sociali, e nonostante i risultanti economici della Russia zarista, prima che Lenin scendesse dal predellino del treno. Il Governo provvisorio era capeggiato da Kerenskij, che non era un menscevico né un bolscevico ma un socialista rivoluzionario. Le elezioni per la costituente avevano attribuito ai socialisti rivoluzionari ampia maggioranza, circa il 60% dei voti, mentre i bolscevichi avevano un quarto dei consensi. E quel successo i socialisti rivoluzionari lo ottennero anche grazie allo slogan “la terra ai contadini” e la Russia al tempo era paese che non aveva vissuto la industrializzazione dell’Europa occidentale ed era ancora paese fortemente agricolo.

È vero che Lenin, abilmente, imbracciò lo slogan della terra ai contadini unitamente all’altro, “tutto il potere al popolo”. Ma Lenin non aveva alcuna intenzione di riconoscere la proprietà in favore dei contadini. L’unica terra che i contadini russi – i khulaki - videro per opera di Lenin fu quella sotto la quale vennero sepolti. Se e quando vennero sepolti. Per Lenin, infatti, qualsiasi forma di piccola proprietà per i contadini doveva essere vietata perché temeva che la piccola proprietà terriera, come il piccolo commercio, avrebbe condotto di nuovo al capitalismo, ovvero al modello economico occidentale.

Fu solo la miseria e l’inefficacia del comunismo di guerra, che aveva impoverito oltre qualsiasi previsione, la popolazione, a spingere nel 1922 alla NEP, la Nuova Politica Economica, in cui ebbe gran parte Bucharin, la mente più sofisticata dei bolscevichi, ed al conseguente transitorio ripristino di forme di piccola proprietà e commercio: la gallina dalle uova d’oro, sempre a sentire Bucharin. Ma era fase che per stessa ammissione dei leader bolscevichi sarebbe finita presto ed avrebbe data la stura alla grande mattanza, in pochi anni.

Infatti negli anni ’30 iniziò – o meglio: continuò – il terrore. Ma anche nei confronti della classe operaia, e nonostante gli insegnamenti marxisti, Lenin era scettico. Sapeva benissimo che l’autonomia organizzativa degli operai avrebbe condotto all’associazionismo, e quindi al sindacalismo e quindi al riformismo. IN una parola: alla socialdemocrazia. Lo aveva appreso leggendo e rileggendo il volume di S. e B. Webb, Industrial Democracy (1897), in cui i due coniugi socialisti (membri della Fabian Society) avevano esposto chiaramente le dinamiche tipiche delle incipienti democrazie occidentali, e la crescita dei movimenti laburisti, socialdemocratici e socialisti europei. Non a caso, lo stesso Marx aveva in uggia la socialdemocrazia perché sapeva benissimo che l’avanzare della socialdemocrazia avrebbe tagliato l’erba sotto i piedi alla rivoluzione.

La rivoluzione, quindi, non la avrebbero mai fatta le classi sociali degli oppressi: né i contadini, destinati a vivere la terra in modo infausto, né gli operai, a rischio di utilizzare la recuperata libertà per associarsi ed emanciparsi. La rivoluzione passava solo tramite il partito e la sua avanguardia. Gli individui erano irrilevanti. E sacrificabili senza alcun rimorso. L’obiettivo di Lenin era quello di fermare l’occidentalizzazione della Russia. Questo progetto era chiaramente espresso nei suoi scritti: ne La grande malattia, Lenin individua la malattia nella politica liberale operaia. E tale malattia, in linea con il mito sanguinario giacobino, doveva esser radiata, estirpata.

Non sarà un caso che i sovietici celebreranno, anche cinematograficamente con l’opera di Eisenstein, lo Zar Ivan il Terribile: lo Zar anti occidentale. Ora, questo anti occidentalismo spiega la nostalgia infantile per Lenin, e forse le simpatie attuali per altri leader che hanno recuperato, nella Russia di oggi, i miti anti occidentali delle storia russa. Quello di Lenin non era un sogno infranto all’alba del gennaio del 1924. Era un incubo ad occhi aperti.