orsa amerena grande

La questione non è se chi ha sparato all’orsa sia un sadico buono a nulla, o un poveraccio che ha agito, male, “d’impulso e per paura”. Si vedrà, dopo un minimo di accertamento giudiziario, almeno. Consideriamo, invece, le “reazioni critiche”, per così dire: e le loro più problematiche implicazioni.

Illustrate, rimanendo nell’ambito di materiali documentali reperibili in rete, fra l’altro, dalla alienata violenza delle parole leggibili (o illeggibili) in quasi tutti i commenti sotto i vari thread “#OrsaAmarenauccisa”. Per stare solo a FB. Perciò, insieme alla questione di un giusto accertamento dei fatti, e delle eventuali responsabilità, sta questa: di una spinta dissolutiva di massa, variamente retrostante la presente, militante, “sensibilità” verso gli animali.

Che vede, nel campo che si vorrebbe umano, impazzare forme di cannibalismo morale, ostentate a sostegno di questa asserita “sensibilità” (l’uomo accusato di avere sparato all’Orsa Amarena, ha ricevuto tali minacce, da avere indotto i Carabinieri del luogo a disporre la “vigilanza armata” della sua abitazione).

È proprio delle società opulente come la nostra venire a disagio con riferimenti “forti”, tutti più o meno rimossi, al tempo stesso in cui se ne ricercano, con affanno e inquietamente, sempre nuovi e succedanei. Già successo, e succede anche in altre forme di recente polarizzazione grottesco-maniacale (intersezionali, schwaisti, benecomunisti, vegani ortodossi ed eretici, e altro di similmente “evolutivo”): ma non per questo, è meno preoccupante.

Con una mano, ci siamo “liberati” di Dio; della dimensione fisica dell’essere, sempre più risucchiata nel vortice digitale o in quello dello stordimento tossico-cerebrale; della parola, scritta non meno che orale; del silenzio e dell’attitudine alla concentrazione, cioè all’attenzione prolungata su un oggetto determinato; della politica come fatto fondamentale della vita associata; dei “legami personali forti”, familiari in primo luogo.

Dall’ipse dixit siamo passati direttamente al “questo lo dice lei”; dalla gerarchia, all’anarchia; dal carattere naturale a quello “culturale” del genere che, da primario datore di senso e di identità, è diventato precario e inaffidabile: da “cambiare” alla prima delle prime ovvie inquietudini che segnano crescita ed apertura al mondo.

Con l’altra mano, è tutto un ricercare un qualche nuovo “interesse forte”, sostitutivo di ciò da cui ci siamo “liberati”. Si vorrebbe che ritrovati emotivi dell’ultima ora, assumano il ruolo di strutture fondamentali durate dall’alba dei tempi.
E, si capisce, non funziona. Non può. Manca la proporzione di senso e la ragionevolezza (che si fa comunque sentire anche dall’esilio in cui l’abbiamo cacciata, essendo insopprimibile).

E non funziona neanche con l’animale reso dio dall’uomo reso animale. Ne viene solo un ulteriore stato socio-confusionale. Chi afferma di amare gli animali in quanto tali e non in quanto dio, credo dovrebbe farsi carico di queste preoccupanti tendenze, e tentare di discuterne ad ogni occasione, comprese quelle più difficili e apparentemente “indifendibili”.

Considerando l’uomo che commette un errore per debolezza, o altra transitoria carenza, una cosa. Quello che pianifica una “rivoluzione culturale” a tavolino e da tavolino, un’altra.

Perché io non discuto nemmeno, se l’uomo sia da considerarsi una specie come le altre. Un “umano”: come si dice con deliberata dedizione propagandistica, a partire dai velenosi dialoghi subliminali di pressoché tutti i “cartoni per bambini”, fino all’evanescenza dottrinale di molto “pensiero cool”, sempre sul pezzo.

Se già gli uomini devono avere uguali diritti, ma non per questo sono uguali, figuriamoci le specie diverse dall’uomo. Le quali devono avere il nostro rispetto, la nostra amicizia, non il nostro fanatismo (nella mia famiglia abbiamo avuto fin qui sette cani, con pedegree o del tutto anonimi, di cui tre trovatelli. Gatti, oche, galli e galline, un cavallo e presto un pavone: sommessamente, ho idea di cosa scrivo). Ma di “uguaglianza”, nemmeno a discuterne.

Anche in tempi di retrocessione, via Instagram, tik-tok e simili, verso forme di comunicazione cavernicolo-figurale, appena velate dalla patina pseudo-avveniristica della loro natura “evenementiel” (tutto vi è “avvenimento”, “evento”, “comunicazione emotiva”: tutto, cioè, è analfabeta), non ne discuterò fino a quando non avremo un gatto-Brunelleschi, un cane-Michelangelo, un asino-Leonardo, un pesce-Eschilo, un coniglio-Aristotele, una lepre-Platone, un toro-Dante, un pappagallo-Marco Polo, un bue-Newton, una mucca-Einstein, una vespa-Edison, una mosca Fleming, una rana-Shakespeare, un calabrone-Leopardi, un corvo-Fellini, un falco-Galilei, un topo-Marx, una gallina-Hawking, un cinghiale-Feynman, un cavallo-Gesù di Nazareth, un vitello-Buddah, un aquila-Mosè Maimonide, e così via.

O, fino quando la Silicon Valley (da dove, essenzialmente, se non geograficamente, tutte queste aberrazioni hanno mosso i primi passi) non diventerà un luogo civile, democratico e umano. Vaste programme.