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Non esiste regime autoritario che non pretenda di imporsi spiegando ai sudditi il valore formativo delle privazioni cui essi sono sottoposti. Ed è esattamente ciò che ha fatto l’altra sera il presidente del Consiglio durante l’ennesima conferenza stampa, questo inguardabile spettacolino autocelebrativo che l’avvocato del popolo inscena davanti a un’opinione pubblica sequestrata e con l’attività del Parlamento della Repubblica in dismissione.

Il capo di questa brigata strapaesana ci ha dunque spiegato che la sospensione di una buona quota dei diritti costituzionali deve esserci d’insegnamento e migliorerà il nostro criterio: e che questo periodo di supplizio dovrà da noi essere impiegato per meditare sui canoni sbagliati della nostra vita, e per riformarli. Cercherebbe invano chi volesse ritrovare qualcosa di anche soltanto vagamente simile in qualsiasi sistema di democrazia appena accennata; e qualche esempio, me meno perfetto, reperirebbe semmai negli annali di qualche autocrazia dinastica orientale o nelle proclamazioni rivoluzionarie di certi capi-clan latinoamericani.

Ma un simile scandalo qui da noi non fa scandalo e prende il suo gioioso corso in faccia a un Paese che risponde canterino e imbandierato sui balconi, mentre un giornalismo osceno - il medesimo che reitera senza perplessità la concione governativa - celebra il profilo solidale e altruistico di questa bell’Italia uniformata.

Medio tempore - e ancora nell’assenza di qualsiasi percepibile reazione da parte di un personale politico che un’ipotesi di tosse assolve provvidenzialmente dal dovere di far qualcosa - la sbianchettatura delle responsabilità di governo fa sinergia con l’uso della frusta sulla groppa degli “irresponsabili” e cioè, pressappoco, quelli che non si sono dotati un mese fa di una stampante per mettere su carta il pdf del diciassettesimo modulo di autocertificazione approvato ieri, o quelli incapaci di spiegare al cane che oltre i duecento metri da casa si diventa traditori della Patria.

L’idea pretesco-inquisitoria e, insieme, di stampo giudiziosamente democraticista, secondo cui le privazioni di libertà immetterebbero la vita delle persone su una rotaia moralizzante ha una presa formidabile in questo caro Paese, ed è solo per questo che un presidente del Consiglio, qui da noi, può farsene interprete con tanta sbrigliatezza. Non solo, infatti, parla la lingua della gente, a cominciare dal condiviso rapporto disturbato con la decenza grammaticale, ma incamicia la Nazione con un tessuto che si automodella con precisione su una sagoma civile perfettamente illiberale.

Nel periodo sacerdotale del suo ufficio Giuseppe Conte si rivolge dunque a una comunità che non solo non patisce, ma anzi accoglie in modo felicemente timorato, l’ordine di far tesoro delle provvidenze punitive del governo. Ed è un’altra grande bellezza della scena italiana.

@iurimariaprado