Qual è oggi la vera Russia? Se lo chiedono, fra gli altri, Boris Akunin, Sergej Guriev e Michail Baryshnikov, che il nove marzo scorso hanno lanciato una campagna di raccolta fondi destinata ai profughi ucraini, intitolata appunto Настоящая Россия, Vera Russia. Nell’appello alla Vera Russia, i tre denunciano la “guerra criminale” in Ucraina, per mano di Putin (“un dittatore”), alla cui hybris la Vera Russia sopravvivrà. Akunin (pseudonimo di Grigorij Salvovic Chartisvili, scrittore noto e tradotto in molte lingue, fra cui l’italiano, per Frassinelli), Baryshnikov (celeberrimo ballerino, nonché il Petrovsky di Sex and the City), e Guriev (economista) descrivono la guerra in corso come un duro colpo alla lingua e alla cultura russa a cui appartengono.

I tre intellettuali ci ricordano così quello che dovrebbe essere ovvio, cioè che amare la Russia e la sua cultura non significa abdicare all’uso della ragione. Riconoscere la magnificenza di una cultura, la bellezza della lingua e della letteratura non dovrebbe mai impedirci di separarla dalle azioni di un governo: al contrario, proprio in ragione di questo amore ci sentiamo feriti. Mai sia che l’amore ci accechi e ci impedisca di ambire alla schiettezza del cuore di biblica memoria: quello che sta avvenendo oggi in Ucraina è una guerra (non un’operazione speciale, né una denazificazione – qualunque cosa questo voglia dire); in questa guerra c’è un aggressore (la Russia di Putin) e un aggredito (l’Ucraina).

Putin non rappresenta tutta la Russia; invocare la pace oggi a Roma o a Mosca sono due cose ben diverse, perché chiedere la pace in Russia significa ammettere appunto che c’è una guerra in corso, sotto la minaccia di leggi liberticide e contro una propaganda che nega l’esistenza stessa di un attacco russo, mistificando, confondendo, e contraddicendosi continuamente.

Qualche settimana fa, come è noto, lo scrittore e traduttore Paolo Nori si è visto ritirare un invito per parlare di Dostoevskij all’Università Milano Bicocca: l’argomento era ritenuto scabroso, visti i tempi. Si è trattato, naturalmente, di una decisione improvvida, forse dettata da un malinteso senso di cautela: giustamente Nori ha denunciato l’accaduto e declinato un se possibile ancor più maldestro contro-invito a parlar sì di Dostoevskij, purché vi si aggiungessero anche autori ucraini. La letteratura, per fortuna, non è il salumiere di quartiere a cui chiediamo a piacere 200 grammi di Pirandello e già che ci siamo anche 200 grammi di Camus.

Come spesso succede, o almeno succede in Italia, il dibattito ha poi tralasciato l’episodio specifico (per cui l’indignazione è lecita) e si è autoalimentato fino ad arrivare al refrain: l’Italia e l’Europa sono russofobe e oggi lo studio della cultura russa è scoraggiato – se non proibito – da un non meglio specificato oscurantismo del pensiero unico (sempre lui!).

Ogni tentativo di censurare una cultura per ragioni di opportunità politica non solo sarebbe ridicolo, ma controproducente: studiare la storia, la letteratura, e tutte le meraviglie che la Russia ha da offrire può invece aiutarci a capirne le tragedie, i dilemmi, le repressioni, l’eterno dibattito fra slavofili e occidentali, il dedalo di nazionalità: la cultura infatti, per sua natura, tende al dubbio e invita a domande più profonde. Incalzare, emarginare i privati cittadini russi residenti in Europa sarebbe una tragedia umana che si somma a quelle già in corso, un’offesa alla memoria storica del nostro continente, e certo non sortirebbe risultati positivi.

Ieri, oggi e domani: ammiriamo lo stile di Puskin! Inchiniamoci al genio di Tolstoj. Ammutoliamo di fronte all’anelito spirituale di Dostoevskij e all’umorismo melanconico di Gogol’ (“ma certo l’unico a cui vorrei assomigliare è Cechov”, ovvero il più sereno fra questi scrittori tormentati, chiosava ironicamente Sergej Dovlatov, dissidente e scrittore sovietico edito in Italia da Sellerio, nelle splendide traduzioni di Laura Salomon). Leggiamo allora – e rileggiamo – Lermontov e Griboedov (“Che disgrazia, l’ingegno!”, forse l’espressione più azzeccata di fronte alla stupidità umana, è la storia – attualissima – di un nobile russo che dopo un lungo viaggiare si trova a disagio con i suoi compatrioti).

Anzi, a pensarci bene: Gogol’ – si chiedeva proprio Nori qualche giorno fa sui social – era russo o ucraino? Per rispondere semplicemente, con un lampo di genio: Gogol’ era un grande scrittore! Lo stesso si potrebbe dire di Bulgakov, nato anche lui in Ucraina. Del resto che cos’è la lingua, la letteratura, la cultura se non essa stessa una cittadinanza a statuto speciale, che trascende i passaporti?

“Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol’”, secondo la nota espressione di Dostoevskij, a descrivere l’influenza dello scrittore nella letteratura russofona successiva (fra le altre cose, Gogol’ ha impreziosito la lingua russa di parole e espressioni della sua giovinezza ucraina e cosacca), ma certo non solo in questa. Ricordiamo il coraggio di quanti, in epoca sovietica, hanno conservato la fiamma della libertà di opinione attraverso il samizdat (pubblicazione autoprodotta con mezzi di fortuna), consentendoci di leggere un capolavoro come Il dottor Zivago di Pasternak (che proprio attraverso il samizdat raggiunse l’Italia e fu qui pubblicato per la prima volta da Feltrinelli) e tramandare i libri allora proibiti (quelli di Bulgakov, per esempio).

La realtà chiama anche oggi gli scrittori russi a scelte coraggiose. Ludmila Ulitskaya (tradotta anche in italiano e pubblicata da La nave di Teseo), già nel 2014 era fra le sparute voci critiche sull’invasione della Crimea, e ora, da Mosca, non esita ad attribuire le colpe del conflitto in Ucraina a Putin. Dmitrij Muratov, giornalista e direttore del quotidiano Novaja Gazeta, premiato con il Nobel per la pace, continua a contrastare le granitiche versioni ufficiali del governo russo: la Novaja Gazeta parla in termini sobri ma chiari di resistenza ucraina, del dolore delle madri russe, ironizza sulla vicinanza di Putin alla Cina. Anna Starobinets, giovane scrittrice di romanzi dalle atmosfere inquietanti (in una delle sue storie, un ragazzino viene mangiato da una colonia di formiche la cui regina gli si era annidata in un orecchio), ha condiviso sui social la decisione di emigrare. Vedova e madre di due bambini, ha spiegato, non poteva rimanere a protestare, rischiando il carcere: eppure far finta di niente, in questo conflitto fratricida, era impossibile a voler preservare un po’ di dignità umana. Le rimane in esilio, conclude, l’unica cosa che sa fare bene: scrivere nella lingua amata, il russo. La cultura, appunto.

Ma certo si fa presto a dire dissidenza: “l’intellighenzia in Russia respira appena”, ha detto Ulitskaya. “Fare il dissidente, purtroppo, non è un mestiere”, scrisse Dovlatov (che dell’ironia sugli intellettuali russi emigrati in epoca sovietica fece la sua – irresistibile – cifra stilistica). Nell’inaugurare l’iniziativa Vera Russia, Akunin ha ricordato addolorato la lettera dei cinquecento esponenti della cultura russa a sostegno dell’invasione della Crimea nel 2014 (“Mi auguro che possiate ora dire qualcosa di diverso da allora, per non vergognarvi poi di guardarvi allo specchio”).

In Italia, il dibattito pubblico sulla politica italiana ed europea di fronte al Cremlino è stato inquinato, fra le altre cose, da un decennio di felpe e oscenità varie, ha brandito la cultura come uno specchietto per allodole, si è spinto all’assurdo celebrando la propaganda ufficiale, vaccini inesistenti, aiuti posticci. Eppure anche oggi questo dibattito rimane aperto a tutte le opinioni (anche le più fantasiose o finanche offensive), sicché parlare di un qualunque tipo di censura suonerebbe almeno pretestuoso.

Prima di sperare che sopraggiunga il pudore fra i tanti estimatori dell’uomo forte Putin, a questi va richiesta chiarezza, e finalmente una spiegazione delle ragioni che hanno portato a questa infatuazione: non certo perché li si vuol vedere penitenti, ma per concreta esigenza di trasparenza e per necessità di rettificare le premesse della conversazione politica, e cercare di indagare con serenità le ingerenze. Le quotidiane litanie per la pace, le preghiere, il cilicio potrebbero altrimenti sembrare disoneste, prima che ridicole. Questo diventa ancor più importante qualora la guerra dovesse prolungarsi, come alcuni analisti prevedono, e con essa la disinformazione quando non propaganda: che credibilità potrà avere allora chi condanna genericamente la guerra ma fa fatica a descriverne le parti? O forse conta di cambiare ancora idea a piacere?

Anni fa, a margine di una conferenza, Putin citò una famosa poesia del poeta e diplomatico russo Fjodor Tjutchev: “non con la ragione si comprende la Russia… alla Russia si può soltanto credere”. Con un lapsus interessante l’ultimo verso divenne invece per Putin: “alla Russia si deve credere”. In effetti, forse, il discrimine è questo: considerare la cultura una raccolta di citazioni modellabili al servizio del potente di turno, che pertanto non accetta critiche, o uno strumento per cercare di capire, e per descrivere con fatica, il mondo; un antidoto e non uno scudo di impunità alla barbarie.