monacoterrorista

Sono tedesco, Allah è grande.

Le parole dell'uomo, del ragazzo che ha tenuto in scacco per ore una città di un milione di abitanti, uccidendo nove persone compreso se stesso, risuonano, nella loro tragica incoerenza, nei cervelli di tutti noi, lasciandoci attoniti, incapaci di dare un giudizio razionale. Sono parole che le fonti ufficiali della polizia tedesca non confermano, testimonianze video o riferite che però sono il primo passo per cercare di capire qualcosa di più.

La confusione che ne emerge è la stessa che abbiamo provato tutti quando davanti alla televisione, alla radio, a Twitter e Facebook abbiamo appreso la notizia della sparatoria e cercato di capire cosa stesse succedendo in quella città che potrebbe essere la nostra, in quel centro commerciale tanto simile a quelli che frequentiamo quasi tutti i giorni.

L'assassino è uno, sono due, sono tre, è un commando, sono terroristi, è un pazzo; ha una pistola, un fucile, una mitragliatrice; c'è una seconda sparatoria in centro, anzi no, anzi sì, e invece no; la metropolitana è chiusa, è riaperta, no, tutti i trasporti pubblici sono sospesi. Ci sono tre vittime, ora sono sei, no, otto; ce ne sono nove, e forse la nona è proprio l'attentatore. Ha gridato "Allah Akbar", no, ha detto "maledetti stranieri! Sono tedesco!"; l'ISIS ha rivendicato, anzi no, ha solo esultato, anzi sì, ma ormai rivendicano pure quando sali in autobus senza biglietto. Fino alle due di ieri notte il mondo occidentale, e specialmente un'Europa sempre più dubbiosa della propria stessa esistenza, ha seguito senza fiato questo flusso di notizie contraddittorie e imprecise.

Alla fine, quando ormai era notte alta, la polizia tedesca ha convocato una conferenza stampa in cui ha revocato il coprifuoco imposto alla città quando sembrava che il killer fosse in fuga e ha informato il mondo che il nono cadavere era proprio lui, il diciottenne dalla doppia nazionalità tedesca e iraniana che viveva a Monaco da almeno due anni e che ha deciso di attaccare famiglie e ragazzi inermi in un McDonald's di periferia. Il movente del gesto, è stato sottolineato, resta sconosciuto: nessuna fonte ufficiale si azzarda a fare ipotesi che, nello stato di tensione in cui si trova l'Europa, potrebbero scatenare azioni e reazioni sempre più imprevedibili e pericolose.

Si è parlato di terrorismo, ed è difficile non essere d'accordo: il terrore che ci ha tenuti incollati alla televisione, il terrore nei volti delle persone inquadrate per strada dalle migliaia di telecamere e telefonini che hanno affollato Monaco nelle ore in cui si sapeva solo che c'era da avere paura, e non si riusciva nemmeno a capire perché, è difficilmente smentibile.

Le dirette televisive e web sono andate avanti a tambur battente finché non è risultato chiaro che di chiaro non c'era proprio nulla: i grandi e meno grandi giornalisti sono stati costretti a rimettere nel taschino della giacca l'opinione sugli islamici o sui neonazisti che erano ansiosi di comunicarci, gli opinionisti da web e da programmi del mattino, salvo rare eccezioni, tuttora tacciono o emettono comunicati quanto mai generici, perché il profilo del colpevole non rientra in nessuna delle categorie ipersemplificate al di fuori delle quali, ormai, ben pochi si avventurano.

Iraniano, quindi probabilmente non associabile all'ISIS; tedesco, ma probabilmente non razzista (il "maledetti stranieri" che gli è stato attribuito pare sia stato gridato invece da una persona che assisteva alla scena). Un bel pasticcio per un'opinione pubblica ormai divisa tra xenofobia e sindrome di Stoccolma: di chi è la colpa? I paradigmi mentali sono scattati a vuoto: ogni "non c'entra niente" (non c'entra niente l'Islam, non c'entrano le destre xenofobe, non c'entra l'immigrazione) è suonato come un'excusatio non petita che non ha fatto altro che confermare quanto l'Occidente abbia i nervi a fior di pelle.

C'entra l'assassino, questo è certo; c'entra, probabilmente, la mente labile di un ragazzo dalle origini incerte, che si è procurato un'arma e ha aperto il fuoco in uno dei luoghi che, a torto o a ragione, sono ormai percepiti come un simbolo della nostra civiltà, cioè il McDonald's di un centro commerciale. Sarebbe ipocrita, tuttavia, dire che su quella mente labile non abbia agito l'atmosfera in cui ormai ci siamo abituati a vivere anche in Europa; tutto quello che "non c'entra", si può dire, c'entra eccome.

Può darsi che non c'entri materialmente l'ISIS, che il ragazzo non avesse affiliazioni né bandiere; può darsi che non c'entri materialmente la xenofobia che ci ha convinti di essere tutti in guerra con chiunque percepiamo "diverso"; può darsi che né l'uno né l'altro sia il principale movente della sparatoria.

È peraltro praticamente certo che l'evidente spaesamento dell'assassino, nato in Germania anche se con doppia cittadinanza iraniana, fosse conseguenza di un suo disturbo mentale, non del suo essere originario di un Paese con una cultura estranea e ostile alla nostra. Il problema, tuttavia, è prima di tutto cosa si intenda per "nostra cultura" e "loro cultura": chi sono esattamente "loro"? Chi sentiamo di essere "noi"? L'Europa? L'Occidente? La Germania? Tutte questioni che abbiamo evitato accuratamente di affrontare finché non ci sono esplose in faccia, uscendo dal fucile di un "matto isolato" o dallo scappamento di un camion lanciato a folle velocità sulla Promenade Des Anglais.

"Noi" siamo quelli che hanno la teoria pronta per ogni fatto, e se, come in questo caso, i fatti non confermano la teoria, ebbene, che si ignorino i primi anziché cambiare la seconda. Siamo quelli che giocano con le parole, che scelgono le definizioni non in base alla chiarezza e all'onestà, ma secondo i criteri di una "guerra culturale" non dichiarata e forse presente solo nelle nostre menti. Siamo quelli che, al contrario del protagonista di 1984, non affermano il diritto di dire che due più due fa quattro, di seguire la logica e le leggi di natura contro tutto e tutti, ma vogliono (e ne trovano a bizzeffe) qualcuno che li autorizzi a pensare che due più due possa fare cinque o tre, e se la realtà dice altrimenti è la realtà che è sbagliata. Siamo quelli che, da una parte e dall'altra, dimenticano la storia sempre più in fretta, che credono a una propaganda sempre più inverosimile e hanno sempre un nemico esterno da accusare se le sparate propagandistiche non si realizzano.

No, non illudiamoci, non siamo così potenti, non siamo tanto importanti: l'ISIS non l'abbiamo creato noi, e nemmeno il terrorismo. Gli abbiamo creato l'habitat ideale, però.

Basta un fucile, un coltello, un camion; basta una causa raffazzonata con un po' di religione (possibilmente islamica), un po' di politica, un po' di anticapitalismo, un po' di antisemitismo e un po' di qualunquismo in proporzioni variabili e un uomo che fino a ieri non contava niente può, l'hanno dimostrato i fatti di Monaco, quelli di Nizza, quelli di Bruxelles e di Parigi, far scattare un coprifuoco nazionale, tenere in scacco una città con milioni di abitanti, finire su tutte le televisioni, far parlare di sé tutto il mondo. Tutte le forze di polizia lo cercano, come succede ai bambini che scappano di casa; tutti quelli che nel passato hanno compiuto il "crimine" di ignorarlo ora, trovandoselo davanti armato, si sono accorti di lui, ma è troppo tardi: l'hanno ignorato, devono morire. Tutti vogliono sapere perché, come, dove, quando, tutti vorrebbero parlare con lui.

Oh, quanto pagherebbero i giornalisti, quanto pagherebbero gli editori per poterlo intervistare in esclusiva, per potergli far dire ciò che gli spettatori vogliono sentire. Oh, quanta gente davanti alla televisione, quanta gente pronta a twittare ogni suo respiro, quante parole su di lui prima e dopo.

Quanto desiderio, quanta ansia di chiedergli perché: perché l'hai fatto, perché sei diventato un terrorista, cosa ti faceva tuo padre, di chi è la colpa. Quanta spasmodica trepidazione di sentirgli dire quello che vogliamo, di interpretare le sue parole per confermare tesi che ci siamo messi in testa e che portiamo avanti nel totale disprezzo della realtà.

Quanta voglia di sentir uscire da quella bocca le stesse parole che vomitiamo ogni giorno sui social network, quanta voglia di ricevere l'imprimatur dell'assassino alle nostre opinioni: è colpa di McDonald's, è colpa dell'Occidente che non ha più valori, è colpa di Internet, è colpa dell'immigrazione, è colpa delle armi, è colpa dell'Islam, degli ebrei, delle banche, è colpa del buonismo, del fascismo, della crisi, è colpa di questo o quel leader mondiale, è colpa dello scontro di civiltà.

Le tesi preconfezionate in cui cerchiamo di imbrigliare la realtà, tuttavia, in questo 2016 in cui la Storia sembra aver accelerato il passo, cadono tutte, una dopo l'altra, di fronte a quelle parole: "Sono tedesco, Allah è grande". Parole su cui ognuno di noi, gli islamisti come gli atei, i liberali come i fascisti, i moderati come gli estremisti, cucirà la propria idea, la propria ipotesi, la propria guerra personale, la conferma di tutto quel che ha sempre pensato.

In attesa del prossimo califfo o del prossimo ideologo da Facebook che ci consenta di continuare a tenerci stretta l'illusione - sempre più pericolosa per noi, ma da cui dipendiamo sempre di più - che due più due, se vogliamo, possa fare cinque. Che, detto altrimenti, la guerra sia pace, la libertà schiavitù e l'ignoranza forza.