È morto Glucksmann, uno splendido traditore
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Parafrasando Brecht, André Glucksmann è uno che nella vita si è seduto da solo (o quasi) dalla parte della ragione, senza badare a quanto affollata, rumorosa e invincibile fosse quella del torto, da cui proveniva e da cui prese rumoroso congedo.
Ha dimostrato come le cose più splendide, nella vita pubblica e privata, si facciano tradendo le maggioranze obbligate e le compagnie coatte e preferendo il rigore alla coerenza. Nel passaggio dalla militanza maoista all'intransigenza anti-totalitaria - a metà degli anni '70, non nell'imminenza della caduta del Muro - visse una contraddizione liberatoria, che l'intellighenzia "rivoluzionaria" europea bollò scandalizzata come il vezzo di un rinnegato o l'infamia di un venduto.
È stato da allora il paladino di tutte le vittime designate dei regimi comunisti e post-comunisti - dai boat people vietnamiti ai ceceni della Grozny risovietizzata dal Cremlino - e l'interprete di un progressismo europeo finalmente disinibito e orgoglioso delle sue radici euro-occidentali, a partire dalla cultura dei diritti umani.
Non ebbe paura di schierarsi con Sarkozy, di mostrarsi ostentatamente amico di Israele e degli Stati Uniti, di denunciare la vanità dei sensi di colpa dell'Occidente di fonte all'islamismo nichilista, di appoggiare le guerre "imperialiste" in Iraq e nell'ex Jugoslavia e di denunciare la necrofilia di un pacifismo neutrale tra aggrediti e aggressori.
Per queste ragioni, in un'Europa prudentemente agnostica rispetto alla deriva del potere russo, rimase fino alla fine tra i pochi intellettuali europei, con Václav Havel, a parlare della minaccia del regime putiniano e della guerra strutturalmente incubata nella sua retorica nazionalista.
Della possibile forza espansiva degli ideali civili europei, aveva finito per scrivere come una Cassandra fastidiosa e rispettata più per la grandezza che per l'effettiva rilevanza di un pensiero paradossalmente troppo classico e troppo irregolare per servire a un'Europa impaurita.