edgar morin grande

Oggi compie 100 anni Edgard Morin, filosofo e sociologo francese, teorico della transdisciplinarità dei saperi e di una “riforma del pensiero”, che faccia propria la sfida della complessità. Una voce che ha accompagnato e spesso anticipato, con analisi profetiche, la crisi della modernità.

Per festeggiare l’anniversario di questa straordinaria personalità della cultura europea pubblichiamo alcuni stralci di una sua conversazione con Nino Arrigo, nell’ambito del Convegno Internazionale di Studi Interdisciplinari dal titolo: Complessità, strategia della conoscenza - Per una Mediterraneizzazione del pensiero, che si tenne presso l’Università Kore di Enna il 26 e 27 marzo 2009.

Al centro di una riflessione, che a dispetto del tempo trascorso non sembra affatto datata, ci sono la crisi dello stato nazione, l’imperfezione della costruzione europea, il rapporto tra globalizzazione del mondo e globalizzazione delle idee, il pensiero mediterraneo come “arte di vita” e i rischi di un riduzionismo che tradisce la complessità della vita e impedisce di cogliere la complessità dei problemi.

Il mondo contemporaneo è il mondo della complessità. Come si governa la complessità in un’età in cui gli stati nazione sono pericolosamente in crisi?

Non si governa. È evidente che c’è una contraddizione tra il potere assoluto degli stati nazione e la necessità di un’autorità sovranazionale. È per questa ragione che non riusciamo a governare la complessità rimanendone, piuttosto, schiacciati. Sarebbe allora auspicabile la costituzione di un’autorità planetaria con poteri di orientamento e decisione su questioni importanti quali, ad esempio, quelle della degradazione della biosfera. Mi sembra evidente - anche alla luce della crisi economica attuale - che non esistono sistemi di regolazione adeguati e che sarebbe necessario un tipo di istituzione che, con poteri decisionali di regolazione, stabilisca la soppressione dei paradisi fiscali, per esempio. Sul piano politico mi pare evidente che l’Onu è paralizzata per via del diritto di veto e dell’assenza di grandi potenze come la Germania. Occorre, dunque, una riforma dell’ONU che non può avvenire se non con la pressione dell’opinione pubblica. Ma, allo stesso tempo, non può nascere un’opinione pubblica senza lo sviluppo di una coscienza forte che prenda atto dei problemi vitali e dei pericoli mortali in gioco per l’umanità. Certo, non si può predire se questa ventata riformista potrà mai avvenire, ma dobbiamo mettercela tutta affinché avvenga. Ma voglio dire di più, per ritornare agli stati nazione: non sono per la loro eliminazione, ma per l’eliminazione dell’assolutismo del loro potere. Penso, ancora, che l’Europa non ha trovato la sua vera realizzazione, una vera unione politica. Tanto per l’Europa, quanto per l’America latina e i paesi arabi e nord africani sarebbe necessario costituire un’associazione metanazionale, in grado di superare, ad un livello continentale, questa onnipotenza dello stato nazionale.

La complessità ha bisogno di sintesi. I normali soggetti della sintesi politica sono stati i partiti. Ma i partititi non sembrano più legittimati come erano nel secolo scorso a mediare tra gli interessi in conflitto. Chi sono, oggi, i nuovi attori della mediazione?

Non sono ancora arrivati. I partiti che noi conosciamo sono sclerotizzati ed è, oggi più che mai, necessaria la resurrezione di un pensiero politico. Pur rimanendo valide le proposte di pensatori ottocenteschi quali Marx e Proudhon per la sinistra e Toqueville per i moderati, oggi abbiamo bisogno di un pensiero più complesso per cogliere tutte le sfaccettature dell’universo attuale. Personalmente ho fatto alcune proposte in alcuni dei miei libri quali “Introduzione alla politica dell’uomo” e “Politica di civilizzazione”, dove affermo che la nostra cultura occidentale produce più effetti negativi che positivi. Questo rapporto va capovolto. In “Terra patria”, inoltre, insisto sull’idea di una comunità di destino più conforme all’umanità. Ma penso che in un’epoca dove tutti i partiti sono fossilizzati è importante anche l’apporto di forze che nascono al di fuori dei partiti. Purtroppo però si tratta, spesso, di forze isolate, locali, senza alcuna connessione. Molte iniziative interessanti – penso tanto all’ Italia quanto alla Francia – provenienti dalla società civile che si organizza in senso riformista vengono, infatti, ignorate tanto dai partiti quanto dalle amministrazioni. Se da un canto esistono gruppi di studio e osservatori che hanno già elaborato l’idea di un’economia plurale, a tutto questo manca ancora la capacità di collegamento.

Come si può “mediterraneizzare” il pensiero considerato che il Mediterraneo è lo spazio del conflitto che nasce da diversità spesso inconciliabili?

L’idea della “mediterraneizzazione” del pensiero mi viene suggerita da un’egemonia della visione del mondo tipica del Nord, che si traduce nella supremazia del quantitativo e del calcolo sul qualitativo. Il Mediterraneo rimane un’arte del vivere all’insegna della qualità della vita e non della quantità dei prodotti, dove ci sia spazio per l’ozio e la convivialità. Non è un caso che l’idea dello slow-food sia nata in un paese mediterraneo come l’Italia. L’egemonia del “pensiero del Nord” è, invece, l’egemonia del pensiero quantitativo che soffoca tutto quello che non si può calcolare, come la qualità della vita che è anche amore, comunione. È l’egemonia dell’iperspecializzazione e della meccanizzazione. Allora il Mediterraneo, nonostante tutte le sue carenze e i suoi difetti rimane ancora l’unico rifugio dove è possibile pensare la qualità della vita. Pensare ad una vita più tranquilla e non accelerata. Sono altresì convinto che la resistenza all’egemonia del “Pensiero del Nord” debba valere anche per il Nord. È il Nord, infatti, ad avere una maggiore nostalgia di tutte le qualità perdute. Perché tanti tedeschi vanno in vacanza in Sicilia, in Grecia, nel Mediterraneo? Perché trovano non solo il sole ma le relazioni, e quella qualità della vita perduta. Quella del Mediterraneo è, pertanto, un’arte di vita che si può esportare, malgrado tanti conflitti, tante differenze religiose e nazionali tra le sue varie parti.

Come si concilia complessità e diritto considerato che il diritto si identifica nella regola e la complessità richiede invece il “patto”, cioè la flessibilità anche estrema della regola?

I padri fondatori del diritto, i romani, sostenevano che da un’applicazione troppo rigida delle regole potessero scaturire, paradossalmente, situazioni di ingiustizia. Concetto ben riassunto dalla massima: summum ius, summa iniuria. Il diritto dovrebbe consistere nella modalità di applicazione delle regole che, laddove troppo rigide, andrebbero flessibilizzate. Non è un caso che il diritto inglese consista in uno schema fondato sulla “consuetudine”. Tutte le sentenze dovrebbero avere dei margini di interpretazione. Nel caso di un fatto criminale spetta al giudice prendere le decisioni capitali, ma non si dovrebbe mai applicare la regola con tutta la rigidità. E ancora, laddove c’è una legislazione troppo rigida questa può, paradossalmente, avere un effetto paralizzante per il sistema. È l’esempio dell’Unione Sovietica, la cui rigidità programmatica abbracciava tutti i settori della società: dall’organizzazione dei partiti a quella delle imprese industriali paralizzandone la vitalità. Sono convinto che l’ordine assoluto non possa esistere senza disordine e flessibilità.

Come si educa alla complessità considerato che nella società multiculturale ogni gruppo tende a chiudersi e a diventare un universo autosufficiente?

In una società multiculturale il gruppo si chiude se non c’è un senso della comunità da parte di tutti, dell’unità. Penso, inoltre, che in una nazione si debbano rispettare i vari tipi di identità culturale, comprese quelle degli emigrati. Al contempo tutti questi gruppi devono sviluppare il senso di appartenenza alla nazione ospitante. La diversità si giustifica all’interno dell’unità e l’unità si giustifica se permette la diversità. È compito della politica impedire la chiusura.

Il caso recente di Eluana Englaro ci ha portato a riflettere sulle questioni della vita e della morte. Dove nasce la vita? Il papa ha ribadito che comincia a partire dall’embrione, cui ha attribuito persino lo statuto di persona. Ma non si tratta, secondo lei, di un fondamentalismo, atto a negare il divenire, l’evoluzione della vita, ridotta alla centralità dell’uomo?

Come affermava Francois Jacob, la vita non nasce, continua. L’embrione è certamente vita ma non è ancora una persona dotata di intelligenza. Oggi, tuttavia, ci è impossibile negare, grazie alla tecnologia, le capacità di sofferenza e di gioia dell’embrione. È uno stadio della vita, uno stadio del divenire. L’idea del papa tuttavia è fondamentalista e, dunque, riduzionista, nella misura in cui dimentica i diritti delle donne e i diritti della società in favore, soltanto, dei diritti dell’embrione. Tutto ciò è visibile nella problematica connessa all’aborto. Si tratta, infatti, di un problema complesso dove il diritto delle donne ad abortire deve convivere col diritto della società a controllare le nascite (oggi abbiamo bisogno, in Europa, di un incremento demografico) e, allo stesso tempo, col diritto dell’embrione all’esistenza. La vita è fatta di sacrificio; milioni di spermatozoi vengono, infatti, condannati a morte da uno soltanto.

Ancora una volta la formula di Eraclito che tanto la ossessiona: vivere di morte, morire di vita.

Proprio così.