Shitstorm

Mi racconta mia figlia che il professore che tiene il corso di Public Management che lei sta seguendo ha spiegato che quando una questione è stata data in pasto all’opinione pubblica, ottenendo che ne venga dipinta un’immagine negativa, la questione è persa. Condannata, irrecuperabile, almeno nel medio periodo. I solerti studenti lo hanno definito uno “shit storm”, non so se sia termine tecnico ma rende decisamente bene l’idea.

Mi ha fatto molto riflettere, perché dà l’impressione che quel “public” del “management” del quale si sta parlando non sia in grado di esercitare senso critico. O forse il costo di correggere le informazioni errate circolate in primo luogo è considerato talmente alto, e le probabilità di successo nell’invertire il sentire dell’opinione pubblica talmente basse, da consigliare caldamente al “public manager” di rinunciare al recupero della reputazione della questione in oggetto.

Così ho pensato a Beppe Grillo. A come nei suoi spettacoli parlasse della fragola-pesce Ogm; raccontava che alcuni ragazzi statunitensi ne erano morti, a causa di una reazione allergica. Anche Report aveva parlato con scandalo della fragola trasformata con un gene di pesce artico. Peccato che la fragola-pesce non sia mai esistita. Poi ho pensato a Vandana Shiva che accusava il cotone geneticamente modificato di essere responsabile dei tanti suicidi fra i contadini indiani. Oggi 7 milioni di agricoltori indiani coltivano quasi 11 milioni di ettari di cotone Ogm; da un semplice calcolo la superficie media che si ottiene è di un ettaro e mezzo. Deduco che si tratti per lo più di piccoli coltivatori e che siano soddisfatti del risultato e sollevati di poter evitare trattamenti insetticidi.

Poi ho pensato a Erri De Luca e ai tanti altri, anche nostri politici, che hanno sostenuto pubbicamente che gli Ogm fossero sterili. Potrei continuare, ma direi che ci siamo capiti: uno “shit-storm” di bufale in piena regola. Una pietra tombale su una tecnica e sui suoi prodotti, sui ricercatori italiani che la studiavano e sulle speranze dei maiscoltori di ridurre i trattamenti insetticidi, tanto per fare un esempio. Per molto tempo mi sono chiesta perché. Candida. Finché qualcuno più saggio di me mi ha suggerito: segui i soldi. E allora è stato facile vedere chi aveva interesse a bloccare questa innovazione, chi è saltato prontamente sul promettente carro della demolizione degli Ogm, ergendosi a paladino della difesa del consumatore, dell’elettore, del cliente, dell’associato.

Ma perché attardarsi a scrivere di una vicenda conclusa, per la mistificazione della quale solo la storia ci renderà giustizia? Perché può ricapitare. Qualunque gruppuscolo ben organizzato e adeguatamente finanziato può in qualunque momento far partire uno shit-storm su qualunque argomento. E’ successo agli Ogm, al glutine, allo zucchero bianco, all’olio di palma, ai vaccini, al glifosate. La prossima volta a chi toccherà?

Capire come funzionano le dinamiche della percezione di una questione nell’opinione pubblica è fondamentale per garantire che alla società arrivi una corretta informazione. Una costante di queste situazioni è la polarizzazione verso il sì o il no. Bianco o nero, la tentazione di semplificare quando la realtà è soprattutto una scala di grigi, o magari un arcobaleno di possibilità.

Invece per ogni nuova tecnologia, per ogni innovazione, si dovrebbe perdere il tempo necessario a valutarne i prodotti, capire quali sono utili e quali eventualmente non desiderabili o addirittura pericolosi. L’approccio “prendere o lasciare” è perdente per entrambe le parti, in definitiva. In questo senso anche l’etichettatura Ogm-free non è necessariamente una scelta informata: è sempre un approccio dicotomico prendere o lasciare, non entra nel dettaglio delle caratteristiche del prodotto, dei metodi colturali, dell’impatto ambientale, ecc.

Siamo una società vecchia, che ha paura del progresso; abbiamo perso l’entusiasmo della gioventù. Ma la società, ogni singolo componente di essa, deve essere informata sulle conseguenze delle scelte che compie. La scelta di rifiutare una tecnologia comporta delle conseguenze; la scelta di diventare vegetariano risolve alcuni dilemmi etici ma ne apre altri relativi all’impatto che questo regime alimentare ha sull’ambiente, come pure se si sceglie di comprare biologico. Sia ben chiaro: il diritto alla scelta va difeso e queste sono tutte scelte legittime, purché adeguatamente informate.

Non esiste bianco o nero, giusto o sbagliato. Così, non ci sono scelte facili: sono sempre difficili, prima di tutto perché richiedono di essere compiute a seguito di informazione. Il marketing e la comunicazione tendono a proporci scelte facili, e noi vorremmo poter scegliere serenamente una strada e non preoccuparci delle conseguenze, vorremmo che fosse facile dare una risposta etica alle nostre esigenze morali. Il filosofo Swierstra, specializzato in etica e politica delle scienze e delle tecnologie emergenti, “tecnomorale” per gli amici, parla di trasformazione della fredda morale in etica bollente. Siamo circondati da affabulatori che sembrano aver risolto la questione per noi, che ci propongono risposte assolute, bianchissime e bollenti.

C’è gente che dello sfruttamento dell’etica bollente ha fatto un mestiere redditizio; ecco perché mi chiedo a chi toccherà il prossimo shit-storm: perché spremuta una gallina dalle uova d’oro quella gente deve trovarne un altra. Credo dovremmo avere la pazienza di guardare in faccia la scala di grigi, l’arcobaleno di possibilità che abbiamo di fronte e assumerci la responsabilità di scelte ragionate e fatte con competenza. Le scorciatoie, le scelte facili, sono come le sirene: attirano ma imbrogliano. Meglio rifuggire la tentazione di semplificare.

Dallo shit-storm dobbiamo imparare un nuovo modo di dialogare: comunicare, condividere, coinvolgere la società responsabilizzandola nel processo decisionale. L’approccio all’innovazione è delicato e va affrontato con maggiore attenzione rispetto a quanto fatto in passato: è necessario passare da una presentazione al pubblico del prodotto già pronto, alla condivisione delle problematiche da risolvere e delle possibili soluzioni innovative. Il primo metodo sa di imposizione e conseguentemente spaventa e allontana. Il secondo coinvolge e responsabilizza.

L’innovazione ci pone di fronte a questioni etiche nuove: solo se la vediamo come uno strumento e condividiamo gli obiettivi da raggiungere allora la società può accoglierla. Fallire nell’accettare ciò che di positivo l’innovazione può portare è un chiaro segnale di declino di un popolo che non sa più agire, che si rifiuta di prendere atto del fatto che l’applicazione delle tecnologie o il rifiuto di farlo contribuiscono a cambiare la società.

Accoglierla governandone le implicazioni è cio che invece sta accadendo in altri Paesi che sanno guardare avanti mediando fra fiducia, ottimismo e responsabilità. Proviamoci.

(Devo uno speciale ringraziamento a Joost Dessein, ILVO, per le profonde riflessioni)