Mentre in Europa la formazione dei ricercatori sul trattamento degli animali è considerata di primaria importanza, in Italia siamo ancora molto indietro. Tra il recepimento tardivo delle direttive europee e la cronica mancanza di fondi, spesso nei laboratori italiani si lavora con standard inadeguati. E la ricerca portata avanti con metodi scadenti può condurre a risultati scientifici insoddisfacenti.

marelli

In questi anni si è fatto un gran parlare della sperimentazione animale usata dai ricercatori come tecnica di indagine del reale, dicendo le cose più disparate sulle tecniche in sé, sulla moralità e sulla bontà o meno dell’informazione a riguardo. Curioso, però, che in tutto questo ci si sia completamente dimenticati di parlare degli attori più importanti: i ricercatori, con tutto il bagaglio culturale che si portano dietro, che è la vera misura della loro professionalità. L’unico accenno a riguardo è stato fatto curiosamente dagli antivivisezionisti, i quali hanno definito “ignoranti” i ricercatori che fanno sperimentazione animale. Ma è davvero così? No. O meglio: non proprio.

Già da molti anni nei diversi Paesi europei per poter lavorare con gli animali in ambito scientifico bisogna fare dei corsi di formazione, e questo a prescindere dal tipo di sperimentazione che si dovrà effettuare: la sperimentazione può essere invasiva o meno, può essere per fini biomedici o ambientali o di qualunque altro tipo, ma un ricercatore che vuole usare animali deve per forza essere formato. Un tempo il livello di formazione richiesto era a discrezione del Paese in cui la sperimentazione veniva effettuata e sottostava alle sue leggi, ma dal 2010 si è fatto un passo in più: con l’introduzione della Direttiva Europea 2010/63, in tutti i paesi membri i ricercatori per poter esercitare devono seguire un corso denominato LAS C (Laboratory Animal Science, livello C).

Solitamente questi corsi sono organizzati dalla Federation of European Laboratory Animal Science Associations (FELASA), tuttavia è possibile organizzare corsi non FELASA ma di livello corrispondente. L’obiettivo primario di questi corsi è quello di creare una coscienza comune tra gli scienziati che devono interfacciarsi con gli animali di modo che non finiscano per considerarle meramente cavie, ma esseri viventi con un loro valore intrinseco. Per questo motivo all’interno del corso si ritrovano lezioni di filosofia, di etica, di storia, legislazione e anche interventi di associazioni animaliste moderate, le quali invitano i futuri ricercatori a riflettere sul sistema attuale e a collaborare per costruire una scienza migliore sia per gli scienziati che per gli animali.

Non solo: l’altro obiettivo è dare agli scienziati una solida formazione tecnica specificatamente sul benessere animale, motivo per cui molte lezioni trattano della corretta alimentazione delle varie specie, delle più innovative tecniche di anestesia e chirurgia, di come monitorare la salute delle varie specie e come evitare di esporre animali con un sistema immunitario fragile a virus e batteri. Non possono mancare lezioni su come individuare lo stress e il dolore nelle varie specie, su quali accorgimenti prendere per rendere le loro casette più confortevoli e far loro sviluppare la più naturale vita sociale possibile. E naturalmente ci sono delle lezioni specifiche sui metodi alternativi, che è importante conoscere per poterli scegliere quando si può. Infine vi sono delle esercitazioni pratiche su come maneggiare i topi e i ratti, cioè le due specie maggiormente utilizzate nei laboratori: ai ragazzi si insegnano i comportamenti corretti dapprima usando dei pupazzi e poi portandoli dagli animali in carne e ossa. Ottenere la certificazione, inoltre, è tutto fuorché semplice, in quanto per venire promossi sono richiesti due lavori di gruppo (tra cui una simulazione di presentazione di un progetto di ricerca a un comitato etico) e un esame scritto della durata di circa 3-4 ore con domande su ogni aspetto del corso. Quindi dire che i ricercatori siano “ignoranti” o comunque non adeguatamente formati non è esatto, anche considerando che si può accedere ai corsi solo avendo una laurea in ambito scientifico-biomedico e con un certo numero di crediti in materie come anatomia, fisiologia, biochimica e molte altre.

Il vero problema di questi corsi di formazione sono i costi, che si aggirano intorno ai 1500€ a partecipante. Per questa ragione in Italia non sono mai stati organizzati: infatti, quale laboratorio italiano potrebbe permettersi dei costi così proibitivi, visti gli scarsi finanziamenti per la ricerca nel Bel Paese? La comunità scientifica italiana finora ha cercato di compensare con svariati corsi sui vari argomenti di costo e durata inferiori, cosa che ha portato ai nostri scienziati un buon livello tecnico, ma che ancora non è comparabile con quello dei colleghi europei. L’ottima notizia è che con il recepimento della Direttiva Europea 2010/63 che avverrà (con un certo ritardo) nei prossimi mesi anche in Italia diventeranno obbligatori i LAS C. La cattiva notizia è che viene da chiedersi in che modo una ricerca che è già economicamente in ginocchio potrà affrontare questa nuova necessità, voluta da tutti gli addetti ai lavori ma decisamente complessa dal punto di vista finanziario.

Ammettiamolo: sarebbe inutile nascondersi dietro un dito dicendo che nella ricerca italiana va tutto bene, che è tutto perfetto, che gli animali sono sempre trattati al meglio punto e basta. Sarebbe ipocrita e mentiremmo. La verità è che gli italiani rimangono degli eccellenti scienziati molto apprezzati a livello internazionale, ma spesso costretti per mancanza di fondi a sperimentare in condizioni tutto fuorché ottimali, cosa che a volte si riflette anche sulle condizioni degli animali da laboratorio, non tanto per cattiva volontà ma perché purtroppo i corsi di formazione sono parziali, insufficienti e soprattutto non alla portata di tutti i laboratori, e quindi le informazioni vengono passate da un ricercatore all’altro, dal tutor all’allievo, per passaparola.

Così a volte succede che si usino anestetici che ormai sono stati sorpassati, che gli animali immunologicamente compromessi non vengano trattati in modo totalmente adeguato alle loro esigenze o che semplicemente non si conosca altro rispetto alla realtà ristretta del proprio laboratorio, cosa che difficilmente porterà a un’innovazione tecnologica a beneficio delle cavie. Questa non è una situazione comune a tutti i laboratori italiani, per fortuna, in quanto abbiamo molte eccellenze che possono permettersi di fornire ai loro ragazzi un livello di formazione del tutto comparabile a quello dei colleghi europei, ma non si può nascondere che purtroppo il numero di laboratori che non ha personale formato riguardo all’animal welfare continui ad essere elevato. Questo è un problema da sottolineare, perché la presa di coscienza di un problema porta alla sua risoluzione. Infatti, è fuori da ogni dubbio che se la sperimentazione animale effettuata secondo tutti i crismi è ancora indispensabile, quella portata avanti con metodi scadenti non solo non è necessaria, ma può anche produrre risultati scientifici non sempre soddisfacenti.

Questo ci porta direttamente a una considerazione. Sia la scienza sia gli animali ricevono un gran beneficio da un’adeguata formazione dei ricercatori, perché coi corsi questi ultimi imparano a rendere la vita dei loro animali decisamente migliore e degna del valore intrinseco dell’animale stesso, ma purtroppo i laboratori italiani hanno una situazione economica troppo dissestata per poterseli permettere. Viene dunque da chiedersi se, piuttosto che finanziare azioni popolari contro la ricerca, per le associazioni animaliste non sarebbe decisamente più utile raccogliere fondi e indire borse di studio per finanziare questi corsi di formazione, in Italia o all’estero, per i giovani ricercatori più promettenti. Sarebbe un’iniziativa lodevole e fruttuosa per tutti: per gli animalisti, per i ricercatori e, soprattutto, per gli animali.