Che per fermare la droga bastasse dire no - Just Say No! - come recitava il proibizionismo reaganiano, lo poteva credere solo una generazione che con la droga, di fatto, non aveva mai avuto a che fare. A cambiare la politica sulle droghe è la prima generazione che ne parla laicamente, conoscendone per esperienza effetti e pericoli.

Perina SayYes sito

Ovviamente era più suggestivo il movimento antiproibizionista nato dalla Beat Generation, che parlava di cannabis libera in nome del diritto individuale all’esperienza e alla felicità. Così come, sul fronte opposto, era più facile immedesimarsi nella guerra planetaria alle droghe di Ronald Reagan, con la sua promessa di ordine, di figli al sicuro e di gang criminali al muro.

Erano tempi più facili, i tempi dell’ideologia, anche sul terreno scivoloso del rapporto con le droghe. Difenderle era cosa da giovani fricchettoni. Contrastarle era cosa da adulti consapevoli. E su quel crinale correvano anche le distinzioni sinistra/destra, essendo la cannabis legale connessa, nell’immaginario collettivo, alla prima categoria e il “Just say no” alla seconda.

Ora che le carte dell’ideologia, dell’economia e della politica si sono mischiate, e che concrete esperienze di legalizzazione sono in atto da anni, converrà prendere atto dell’alta dose di insincerità di entrambe quelle antiche posizioni. L’antiproibizionismo della vecchia scuola difendeva un’utopia socialmente inapplicabile, quello dell’illimitata libertà di farsi gli affari propri. L’approccio conservatore si era blindato nell’opposta casamatta: l’idea che investendo enormi somme si sarebbero eliminate le droghe come il vaiolo, o la difterite, o la peste, insomma come una malattia diffusa da untori che si combatte isolando i malati nei lazzaretti e vaccinando i sani con altissime dosi di propaganda.

Non era vero. Ma per scoprirlo ci è voluto tempo. Ed è stato necessario l’affacciarsi sulla scena del potere – scientifico, accademico, politico – della prima generazione che di cannabis e droghe in genere ha avuto esperienza diretta ed è quindi personalmente e “biograficamente” consapevole delle regole di quel tipo di mercato illegale e dell’impossibilità di stroncarlo con i divieti (che, anzi, lo irrobustiscono).

C’è un potente dato anagrafico all’origine del processo di revisione delle teorie che hanno fondato la War On Drugs reaganiana impegnando l’intero Occidente su quella via. Se, infatti, fino al 1962, meno dell’1% della intera popolazione nordamericana aveva sperimentato, anche solo occasionalmente, l’uso di una qualche droga, nel 1979, al culmine della stagione hippy, l’uso di droghe ricreative negli Stati Uniti coinvolgeva ben il 70% dei giovani adulti (tra i 18 e i 25 anni). Se prendiamo per buoni i dati pubblicati su una testata super-proibizionista come prova del luttuoso contagio della "cultura della droga", dovremmo trarne anche un'altra e più profonda conclusione.

La “generazione Reagan” - quella che ha industrializzato il proibizionismo, dopo che, anche grazie al proibizionismo stesso, la droga era diventata un fenomeno di massa - non sapeva, letteralmente, di cosa parlava. La generazione successiva, invece, conosceva il tema benissimo. Aveva comprato e magari anche venduto cannabis, aveva visto i prezzi salire con il proibizionismo, e i margini di guadagno aumentare enormemente, e il traffico illegale diventare il miglior affare del secolo proprio grazie alle dinamiche della clandestinità.

In pratica aveva le competenze di base per ragionare sull’argomento trattandolo alla stregua di un qualsiasi altro tema di mercato, con lo stesso approccio “laico” con cui avrebbe discusso del boom delle bibite energizzanti o delle verdure a km zero. Soprattutto, quella generazione era consapevole di un dato: il rapporto causa-effetto tra droghe leggere e droghe pesanti esisteva, ma era legato all’offerta dei fornitori che “spingevano” dalle une alle altre i clienti per aumentare il profitto e fidelizzare nella dipendenza totale il loro pubblico.

Il successo dei primi referendum Usa sulla legalizzazione della cannabis, in Colorado e a Washington, è legato all’arrivo alla ribalta di questa classe anagrafica informata per via diretta. Sono i 50/60enni di oggi, la massa critica di ogni corpo elettorale. Sono cresciuti, hanno attraversato le esperienze anche traumatiche degli Anni Zero delle droghe. Per di più, il fallimento delle politiche proibizioniste lo vedono ogni giorno all’angolo delle strade dove abitano e lavorano, insieme all’enorme portato di illegalità, degrado e talvolta orrore che porta con sé il narcotraffico contemporaneo.

È nato così nel mondo il nuovo antiproibizionismo “in giacca e cravatta”, capace di usare statistiche, dati economici, indici di criminalità, paragoni tra esperienze di consumo legale, guidato da docenti universitari, direttori di giornale, elementi forti dell’establishment. Prima di conquistare la politica, si è espresso con prese di posizione pubbliche e con campagne politico-giornalistiche di qualità come quella del New York Times.

Ma è inutile chiedersi se qualcosa di simile può avvenire anche da noi. In Italia fa ridere anche solo pensare a un editoriale del Corriere della Sera che si schieri per la legalizzazione, o a un centinaio di rettori che firmino una petizione al Parlamento, o a un grande imprenditore-simbolo, un Armani o un Berlusconi, che dica come Steve Jobs: “Sì, l’ho usata”.

Per dare voce al “Just say yes”, insomma, servono coraggio e visione da parte delle classi dirigenti, oltre che una consapevolezza diffusa. Da noi si dovrà aspettare che finiscano di discutere di primarie e barconi.