L'elefante nella stanza: i Repubblicani dopo le elezioni di midterm
Istituzioni ed economia
"The people have spoken, the bastards" – il popolo si è pronunciato, quel bastardo. Visto dalla Casa Bianca, l'esito di queste elezioni di mezzo termine si potrebbe riassumere con la celebre battuta di un candidato democratico trombato al Senato negli anni Sessanta. Le conseguenze son sin troppo evidenti: il Presidente "anatra zoppa", la necessità di compromessi, e così via. Meno scontate sono le conseguenze nel campo dei vincitori. Cosa accadrà ora – e cosa sta già accadendo in queste ore - nel Partito Repubblicano?
La tentazione di pensare che il voto della settimana scorsa faccia già assaporare al Grand Old Party una vittoria anche alle presidenziali del 2016 è forte, ma va repressa. Le midterm, per più di un motivo, spesso non preludono affatto ad un voto consonante nelle successive presidenziali. Del resto, anche nel 2010 Obama ricevette una gran mazzata; eppure eccolo ancora lì.
Semmai, ad alimentare le speranze dei repubblicani di riprendersi la presidenza nel 2016 è un altro fattore: negli USA dopo otto anni il pendolo dell'alternanza tende sempre ad oscillare. Mantenere lo stesso colore politico alla Casa Bianca per tre mandati consecutivi è un'impresa riuscita, dal secondo dopoguerra, solamente a Bush padre, che nel 1988 succedette ai due mandati di Reagan. Ma è l'eccezione che conferma la regola. Tutti gli altri che hanno tentato hanno fallito, anche se anche se a volte davvero di pochissimo.
In questo senso le prossime presidenziali per i Democratici saranno simili a ciò che quelle del 2008 furono per i Repubblicani; e simmetricamente, tra questi ultimi – contrariamente a quanto accadde due anni fa, quando le primarie per selezionare l'antagonista di Obama vennero popolate da una moltitudine di candidati scadenti quando non improbabili – stavolta il contesto incoraggia i "cavalli di razza" a scendere in campo.
L'esito delle elezioni di mezzo termine, però, un risultato concreto in questo senso lo ha già prodotto. I Repubblicani ora non sono più puramente e semplicemente "l'opposizione". Conquistato anche il Senato, per il Grand Old Party è suonata la campanella di fine ricreazione. Alla geniale copertina del New Yorker che mostra "l'elefante nella stanza" del Presidente (gioco di parole: in inglese elephant in the room è metafora proverbiale per indicare in problema troppo grosso per essere ignorato, ma l'elefante è anche il simbolo del Partito Repubblicano) si potrebbe attribuire anche un ulteriore doppio senso: i Repubblicani ora siedono nella "stanza dei bottoni". Adesso tocca anche a loro partecipare, in un certo senso, al governo del Paese. E ciò probabilmente finirà per imprimere una determinata curvatura al processo di "selezione naturale" del candidato alla Casa Bianca.
La nota spaccatura fra i repubblicani più moderati e di establishment, e l'ala più conservatrice e radicale vicina al movimentismo antistatalista dei Tea Party, non sarà l'unica chiave di lettura di quanto accadrà nei prossimi due anni nel centrodestra a stelle e strisce. Gli aspiranti al trono si vedranno chiamati innanzitutto a mostrare, con i fatti più che con discorsi ben infiocchettati, l'esperienza e competenza che al giovane senatore dell'Illinois, con il senno di poi, difettavano.
In questo senso, accanto alla consueta dicotomia tra l'ala moderata e quella più conservatrice, se ne profila una di tutt'altro genere: quella tra senatori e governatori.
I senatori saranno protagonisti del rapporto con la Casa Bianca nei prossimi due anni: sui tagli alle tasse e alla spesa pubblica, sia sul mantenere o modificare la famigerata ObamaCare (la riforma del sistema sanitario voluta dal presidente) e sul riformare o meno la materia dell'immigrazione (eterna promessa mai mantenuta di Obama), sia su alcune nomine importanti (probabilmente quella di un nuovo giudice della Corte Suprema). Un po' giocheranno a braccio di ferro, e un po' dovranno costruire compromessi.
Tutto ciò avrà dei protagonisti: nomi, cognomi, volti. In primis quello del senatore della Florida Marco Rubio, partito come uomo dei Tea Party ma ben presto ricollocatosi nell'establishment del partito, volto giovane e fresco nel quale, con Obama appena reinsediato, una copertina di TIME già precipitosamente leggeva quello del "salvatore" dei Repubblicani, suscitando l'ironia del diretto interessato:
There is only one savior, and it is not me. #Jesus
— Marco Rubio (@marcorubio) 7 Febbraio 2013
Le origini cubane e la adesione ad una politica estera da "falco" sono il biglietto da visita del senatore del Texas Ted Cruz, un ultraconservatore che si propone come l'ultimo giapponese ancora pronto a battersi per l'integrale abrogazione di ObamaCare. A distinguersi per la proposta di un ritorno alla antica politica estera isolazionista (che caratterizzava i Repubblicani un secolo fa) è invece il senatore del Kentucky Rand Paul, figlio di quel Ron Paul vecchio senatore del Texas che a lungo ha tenuto alto il vessillo del movimento libertarian americano. Rand è un po' la versione "presentabile", edulcorata, di Ron: un veejay di MTV ha recentemente riassunto il tutto con una metafora musicale, stando alla quale il padre sta ai Nirvana come il figlio sta ai Pearl Jam.
I governatori, dal canto loro, potranno consolidare i rispettivi curriculum in quello che tradizionalmente è il tipico passaggio nel cursus honorum che culmina trasferendo la residenza al n.1600 di Pennsylvania Avenue. Non va infatti dimenticato che l'elezione alla Casa Bianca del senatore Barack Obama nel 2008 fu una anomalia (peraltro predeterminata dal fatto che anche il suo antagonista, il repubblicano John McCain, era un senatore, e come lui non aveva mai governato nulla). Prima di allora tutti i presidenti eletti democraticamente nell'ultimo mezzo secolo erano governatori, oppure ex vicepresidenti che in quanto tali si facevano forti di una (reale o presunta) partecipazione ad altra importante esperienza di governo: quello dell'intero Paese. Per trovare un'altra eccezione prima di Obama tocca risalire fino a John Kennedy; ma stavolta tutto induce a ritenere che gli americani abbiano voglia di tornare al sentiero battuto.
Ciò arride alle ambizioni di personaggi come Chris Christie, il governatore extralarge del New Jersey (Stato tradizionalmente "blu"), a lungo campione assoluto di popolarità, poi messo in crisi da un piccolo quanto fastidioso scandalo che, comunque, potrebbe non compromettere i suoi piani. Christie è considerato un centrista, anche se nel governare ha talvolta applicato ricette "reaganiane", ad esempio con i sindacati del pubblico impiego.
Su questo fronte, però, il vero campione è il "tatcheriano" Scott Walker, il governatore del Wisconsin (altro Stato tradizionalmente "blu"), nemico giurato dei sindacati dei dipendenti pubblici, sopravvissuto di slancio anni fa ad un tentativo di recall (destituzione tramite consultazione democratica, una sorta di voto popolare di sfiducia), ed ora trionfalmente rieletto. Secondo Nate Cohn del New Republic (non certo un suo simpatizzante), Walker, essendo al tempo stesso un "duro e puro" ma anche un uomo di governo ben rodato, non un movimentista ideologo, sarebbe il più capace di fare ciò che serve per vincere, ossia riunire le varie "anime" di un partito che, per sua natura, è al tempo stesso una coalizione.
C'è poi sul tavolo il volto di un ex governatore, che prodigiosamente riesce ancora a mantenersi sulla breccia nonostante non ricopra alcuna carica da ben sette anni: Jeb Bush, governatore della Florida dal 1998 al 2007, figlio del 41esimo presidente e fratello del 44esimo, centrista ma gradito alla "destra religiosa", alfiere di una riforma dell'immigrazione che apra le porte alla regolarizzazione di molti dei latinoamericani che vivono e lavorano più o meno illegalmente negli USA. Su di lui grava però un dubbio: se davvero, come pare, i Democratici torneranno ad affidarsi ai Clinton, non sarà più efficace proporre un volto nuovo, anziché inscenare un revival del solito scontro fra le solite due vecchie dinastie? Non è un dubbio di poco conto.