Una cosa ci ha insegnato la stagione del governo Monti: riforme annacquate dalla mediazione di troppi interessi diversi (vedi la riforma del lavoro Fornero o il pacchetto liberalizzazioni) finiscono per essere un boomerang per lo stesso governo che le promuove. All'impopolarità di averle realizzate si aggiunge l'ignominia per la loro scarsa efficacia. Un'altra lezione che il sottoscritto ha imparato riguarda l'atteggiamento degli spiriti innovatori più radicali rispetto a tali tentativi di riforma: considerandoli insufficienti, ne diventano subito severi avversari, finendo per sommare le loro critiche a quelle dei reazionari più reazionari.

Matteo Renzi è certamente consapevole di tutto ciò, sa che le mezze misure sarebbero controproducenti e che sulla riforma del lavoro si gioca la partita più importante da quando è diventato segretario del Partito Democratico. L'Articolo 18, o meglio il diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti economici giudicati illegittimi, è la quintessenza della cultura della sinistra italiana. Se davvero riuscirà a riformare il diritto del lavoro nella direzione di una maggiore flessibilità e certezza dei costi di assunzione e licenziamento, avrà reso al Paese un servizio enorme.

Ci riuscirà? Renzi non è la Thatcher, tanto evocata a sproposito in questi giorni, non è nemmeno la Merkel e non è Blair. D'altronde l'Italia non é il Regno Unito o la Germania, per cultura politica e forza delle istituzioni. Le scelte di politica economica che il governo ha assunto finora sono state certamente insufficienti, ma solo chi crede ai sogni si sarebbe potuto aspettare molto di più, con questo Parlamento, questo clima sociale, questo stato dell'economia e delle finanze pubbliche.

Qualsiasi giudizio si dia al premier, al suo operato e alla sua figura, è bene che sulla riforma del lavoro si componga un fronte riformatore di sostegno alla riforma dell'Articolo 18. Con un PD surriscaldato dalla guerriglia interna al segretario e culturalmente molto sensibile alle voci di protesta che giungono dai sindacati e con un Berlusconi sornione, che prova a sostenere la riforma giuslavoristica per beneficiare politicamente di un suo eventuale fallimento, il ddl delega sul lavoro viaggia tra Scilla e Cariddi. Se si sciupa questa ulteriore chance di cambiamento, non ne avremo un'altra a breve.

Da un lato, dunque, sta a Renzi non cedere ai tentativi di annacquamento: annunciare "missione compiuta" non sarebbe un valore in sé, se poi gli effetti reali della riforma fossero limitati. Dall'altro, sta a chiunque si batte da anni per un mercato del lavoro più aperto, più equo e più flessibile, far sentire la propria voce, anche a costo di smussare le comprensibili critiche al progetto di riforma ("è troppo poco perché riguarda solo i nuovi contratti").

Ciò non significa diventare "renziani": non si commetta lo stesso errore compiuto dalla sinistra nel 2002, quando per sfregio a Berlusconi anche le anime più riformiste non colsero l'opportunità di una riforma che avrebbe permesso all'Italia di anticipare persino la Germania nella modernizzazione del mercato del lavoro (erano anni di crescita economica, peraltro). Significa - ancora una volta - stare dalla parte del buon senso, che è a parer mio il mestiere dei liberali.

@piercamillo

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