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Davanti ai politici di professione e a chi fa politica attiva, con ruoli dentro le istituzioni o comunque verso chi mira ad entrare al loro interno, si tende ad esprimere un quasi fisiologico giudizio di sospetto e rifiuto: per fare politica bisogna prima maturare delle esperienze nel mondo reale e nel mercato del lavoro, dimostrando di saper fare qualcosa e acquisendo un’autorevolezza che solo il retaggio e la storia extrapolitica sono in grado di generare. Questo è quanto ha sempre creduto – e in buona parte continua a credere – pure il sottoscritto.

Ora, la riflessione successiva diventa: come può coniugarsi questa sacrosanta pretesa con l’urgenza dell’impegno? Come si possono conciliare i tempi dell’attività politica e professionale? In tutti gli aspetti della vita, è infatti il tempo la variabile fondamentale: il tempo impegnato nello studio e nella professione è inevitabilmente tempo sottratto alla politica, e viceversa.

Questo trade-off crea un dilemma irrisolvibile. Trovare prima il proprio posto nel mondo extra-politico, per poi dedicarsi alla politica è ovviamente una possibilità. Ma anche questa scelta crea, a un certo punto, un professionismo politico che rende tutt’altro che agevole e interessante il ritorno alla professione extrapolitica, a maggior ragione se questa – poco importa se manuale o intellettuale – implica un impegno di aggiornamento costante che la vita e la militanza pubblica rendono quasi impossibile.

Chi si rivolgerebbe fiducioso a un ingegnere, un idraulico, un infermiere, un falegname, un medico o un commercialista che non maneggia da dieci anni i ferri del mestiere, se non saltuariamente e in modo quasi dimostrativo? E viceversa, davvero ci si sente sicuri se ad amministrare la cosa pubblica, per piccola o grande che sia, è un dilettante allo sbaraglio senza alcuna esperienza (e poco importa il livello socio-economico e di istruzione)? Il successo populista dell’uno vale uno non è stato un effetto della fiducia verso il dilettantismo, ma di sfiducia verso il professionismo politico. I “barbari” volevano entrare in Parlamento per smontarlo, mica per migliorarlo.

Se una certa dose di professionalità, per non dire di professionismo, è necessaria, è preferibile un meccanismo di selezione davvero competitivo, che però è difficile realizzare sia nella vita interna dei partiti, sia nelle dinamiche elettorali, condizionate da rendite di posizione (fedeltà gregaria, controllo delle risorse economiche, insediamenti di potere, popolarità personale…) tutt’altro che meritocratiche.

L'alternativa infatti è l’accettazione di una gerontocrazia politicista, nel migliore dei casi in termini di prevalenza dei civil servant (comunque fenomeno positivo e da non rimuovere) e quindi un sistema con più barriere per i più giovani e pochissimi spazi per la competizione intergenerazionale.

Poi, come in ogni percorso di crescita, dovrebbe servire un vero cursus honorum, perché per arrivare a gestire strutture imponenti e muoversi tra temi cruciali, che riguardano tutti, bisogna per forza di cose aver gestito realtà più piccole, crescendo tramite passaggi graduali. Da qui l'importanza della formazione politica in senso stretto, che come quella professionale dovrebbe essere continua, non solo dentro i partiti, ma anche nella società civile, perché il ricambio di classi dirigenti non si consumi tutto all’interno delle organizzazioni politiche, ma sia in simbiosi con la crescita e la maturazione della società.

Oggi gran parte dei rappresentanti politici tendono a operare in un ecosistema chiuso, volto e dedito all'autoconservazione: una fetta consistente di loro ha in testa principalmente la sopravvivenza personale, perché è composta da persone che non avrebbero mai trovato sul mercato non politico soddisfazioni e guadagni comparabili a quelli raggiunti in politica.

D’altra parte non si può negare che l'interesse e l’affermazione personale muove in realtà tutte le relazioni professionali e qualsiasi cammino individuale, compreso quello politico: si tratta quindi di un vincolo umano, che, come tale, non può essere né superato, né cancellato.

Un’idea normativa della politica - nel senso di "come dovrebbe essere" – è destinata a rimanere irraggiungibile, perché è naturalmente contraddetta da molti incentivi individuali, con tutte le ipocrisie e le miserie che umanamente ci si tira dietro, tra invidie, attriti e sopraffazioni. La politica non è un gioco perfetto e anch'essa ha bisogno di tolleranza, sia nei giudizi che per i comportamenti.

Anche se gestire presente e futuro e in primis le risorse di tutti necessiterebbe di un grado di responsabilità diverso (il massimo, in termini normativi), la realtà ci riporta sempre a una "riduzione" privatistica della politica (la politica come interesse personale del politico) e a comportamenti parassitari che ribaltano la logica dell'attività "alta", diventando preponderanti. Questa è forse l’imperfezione principale della sfera politica, almeno dentro le istituzioni; assumerla come vincolo non significa però accettarla come fatto e non cercare di sradicare o almeno modificare quei sistemi bloccati che oggi prosperano nei partiti, prima di tutto superando il meccanismo della cooptazione per fedeltà e non per lealtà e merito.

Il fatto che non ci possa essere una politica di puri principi, non significa che ce ne si debba liberare. Un percorso ad hoc tutto da declinare e di fatto assente nei partiti esistenti, che abbia come fine primo e ultimo una reale selezione interna per formare classi dirigenti degne di questo nome, potrebbe arginare la prevalenza statistica dei narcisisti patologici che nella dimensione politica trovano il più agevole spazio e l’impegno militante “indignato” di folle anonime guidate dal risentimento e dall’invidia sociale. Se ci si convince che la politica è una cosa inutile o sporca, diventa un ricettacolo di sporcizie e inutilità

Per questo bisognerebbe riscoprire la politica come attività responsabile e creativa. La politica come impegno nella vita pubblica, non solo come dimensione ed esercizio del potere pubblico. La politica weberiana come professione, cioè come vocazione e non solo mestiere. Un’ideale irraggiungibile come tutti gli ideali, ma utile a evitare di precipitare troppo in basso nell’anomia tribale della pura contesa per il potere. La politica ideale non esiste perché è un traguardo troppo alto per gli uomini. Quella senza ideali non deve esistere, perché è un rischio troppo grosso per la società.